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sabato 13 settembre 2008

La terra degli uomini rossi


È già nelle sale “La terra degli uomini rossi” di Marco Bechis, il più bel film italiano in concorso all’ultima Mostra di Venezia. Il regista italo-argentino, autore del piccolo gioiello “Alambrado” e di un capolavoro del cinema civile come “Garage Olimpo”, è meno conosciuto dal grande pubblico di altri suoi colleghi ma ha le cose più urgenti e forti da dire. In questo caso la storia degli indios Kaiowa-Guaranì nel sud del Brasile, nel Mato Grosso del sud: privati della terra, rinchiusi nelle riserve o costretti a scappare in città e le loro foreste disboscate per far posto alle sterminate piantagioni dei latifondisti bianchi. Una sfida per la sopravvivenza che è emblema delle grandi sfide di oggi. Bechis racconta con grande rispetto di ragazzini senza speranza che si suicidano, di sciamani che cercano di trasmettere il loro sapere, di piccole occupazioni di terre da parte degli indigeni e di bianchi (ci sono anche Chiara Caselli, moglie di un fazendeiros, e Claudio Santamaria, servitore che cattura le attenzioni sessuali delle native) che vivono dentro le grandi ville, a guardare gli uccelli (come il titolo originale “Birdwatchers” suggerisce) e a non rendersi conto di essere invasori. Il film, toccante e carico di dolore ma anche speranza (“noi abbiamo speranza, guardiamo i bianchi con curiosità e rispetto e ci aspettiamo di essere trattati allo stesso modo” ha affermato uno degli interpreti), è nelle sale italiane da oggi completamente sottotitolato.
“Non voglio che il pubblico pensi si tratti di un documentario – chiarisce Bechis – Ho raccontato una situazione vera, tutti i fatti sono reali ma la storia è costruita e i protagonisti non interpretano sé stessi. Non ho neppure girato dentro le riserve per non dovermi rapportare con la burocrazia. I sottotitoli avrebbero alimentato il malinteso, invece ho voluto doppiare tutto perché chi guarda lo veda come una finzione costruita su elementi veri”.

È un film su desaparecidos come i suoi due precedenti o su dei sopravvissuti?
“Sui sopravvissuti al più grande genocidio che la storia ricordi, quello degli indigeni americani. Di desaparecidos la storia dell’America Latina ne ha tanti. Però la mia speranza è grande, sono convinto che gli indios abbiano le idee molto più chiare di noi, nonostante la nostra tecnica, di come si viva su questa terra. Spero ci trasmettano una speranza, che la loro curiosità verso le cose ci contagi perché senza uno scambio con loro non c’è speranza per noi bianchi”.

Come vivono queste persone?
“Non ho inventato nulla nel film. Molti ragazzini si suicidano perché non hanno sostegni nello studio, non trovano lavoro. I fazendeiros hanno preso le loro terre e con i grandi macchinari hanno bisogno di pochissima manodopera e non gli danno nemmeno un lavoro. Invece l’idea che si sono fatti i brasiliani è che gli indios si suicidano perché sono pigri. Qualcuno di loro va in città ma è tenuto ai margini come accade da noi con i rom. E quando tornano al villaggio si sentono rifiutati e qualcuno si suicida”.

E le musiche del film?
“Sono di due tipi, ci sono quelle composte apposta da Andrea Guerra e quelle di Domenico Zipoli, missionario italiano che visse con i guaranì nel ‘700 e scrisse queste musiche. Le suonava e cantava con gli indigeni che pare fossero più bravi degli europei. Sono musiche ritrovate solo 13 anni e per il pubblico saranno una vera scoperta”.

Il suo film vuole far conoscere questi popoli ma non solo.
“All’inizio di questo progetto c’è l’incontro con l’associazione Survival. Abbiamo creato un fondo per dare delle risorse a queste persone perché possano sopravvivere”

Scritto per Peacereporter da Nicola Falcinella

1 commento:

ღღ Š î $↕ Ŧ ۞ ღღ ha detto...

Passavo di qua ed ho trovato un blog proprio interessante.
Penso ripasserò presto.Ciao Sisifo