Ascoltate Josè Saramago intervistato da Serena Dandini

mercoledì 25 novembre 2009

L’Italia respinge altri 80 esseri umani nelle mani dei carcerieri libici

Il 23 e il 24 Novembre i ministri dei paesi del Mediterraeno Occidentale (tra cui Malta (dove si viene imprigionati per più di un anno anche se si è bambini, anche se si è dei rifugiati), la Libia (che nelle sue prigioni finanziate dal governo italiano, dove l’Italia respinge illegalmente i richiedenti asilo politico, le persone vengono torturate, a volte uccise, deportate , la Tunisia, la Mauritania, ma anche la Spagna e il Marocco (che hanno collaborato nell’uccisione a freddo di decine di migranti alla frontiera tra le enclaves di Ceuta e Melilla), si sono riuniti a Venezia, barricati sull’isola di San Servolo per parlare di sicurezza e di contrasto all'imigrazione.

Le associazioni veneziane antirazziste avevano chiesto l’autorizzazione ad esprimere il loro pacifico dissenso.
Dall’Accademia sarebbe dovuta partire una barca verso San Giorgio, per una simbolica performance di sensibilizzazione e denuncia.

Tutto era autorizzato fino alle sette della sera prima; a quell’ora, infatti, chi aveva chiesto l’autorizzazione è stato riconvocato d’urgenza in questura per sentirsi dire che le cose erano cambiate, che il Ministro degli Interni, in modo perentorio, diretto e insindacabile, aveva vietato la parte acquea della manifestazione.
Ok, niente barca, niente bacino, ma il presidio sì, con le concordate forme pacifiche e creative.

Questi gli accordi presi fino alla sera prima.

Ma ieri all’Accademia la polizia era di altro avviso:
"se tirate fuori i manichini dobbiamo intervenire" dice subito il dirigente Digos, mentre degli "inviati" romani, mandati direttamente dal Ministero, restano ai margini a controllare, a valutare anzi, la condotta dei loro colleghi della Questura di Venezia, visibilmente imbarazzati di fronte ad ordini così ingiustificabili: caricare una manifestazioni autorizzata perché a Maroni danno fastidio tre manichini di cartapesta e tutto quello che possono evocare e rappresentare.




Una donna incinta, un bambino e un padre, il più alto misura un metro e venti. Una famiglia di carta pesta

I manifestanti, società civile di tutte le età, a volto completamente scoperto, signore e studenti, con le mani alzate, si ritrovano nella grottesca, incredibile situazione di dovere difendere coi loro corpi dei manichini di carta.

La polizia si avvicina, schiaccia i manifestanti dopo averli circondati da tutti i lati.





Si cerca di impedire che le telecamere della Rai e i giornalisti locali possano filmare o fotografare i tre manichini. Tanto fastidio danno questi simboli di dissenso e solidarietà, di "pietas" e di denuncia. La polizia si avvicina, hanno l’ordine chiaro di caricare. Alzano i manganelli, si mettono i caschi, schiacciano i corpi dei manifestanti con i loro scudi. parte qualche colpo, viene strappato il microfono a chi stava denunciando questo ingiustificabile attacco alla democrazia, alla libertà di pensiero e parola.
Ma la parte coraggiosa e civile di una Venezia che difende i suoi veri valori riesce a mostrare cosa significa veramente disobbedire a delle imposizioni ingiustificabili. Troppi giornalisti esterrefatti, troppa gente che si ferma in solidarietà vedendo quella violenza scagliarsi addosso a una manifestazione del genere. La polizia deve allontanarsi, il microfono torna in mano a chi sta conducendo questa battaglia di civiltà. I manichini vengono salvati e fotografati. Solo uno, il papà, è stato "arrestato", forse per reato di immigrazione clandestina commesso da un cadavere di carta pesta.
Alla fine sono i manifestanti stessi a consegnare alla polizia i manichini: li volevate tanto? Noi adesso, decidiamo di consegnarveli. Questo è un bambino morto di fame, freddo e disidratazione il 10 agosto del 2009, su una barca, sotto gli occhi del Ministro che voi oggi avete difeso anche a costo di mettervi contro le più elementari norme di democrazia di questo paese alla deriva.

Per la galleria fotografica e l'articolo completo vai su globalproject.info


Era il 20 agosto del 2009 quando la guardia di finanza italiana riportava a terra cinque eritrei intercettati in mare, a largo di Lampedusa. Erano una donna, due uomini e due ragazzini. Nei loro occhi restava l’orrore di una tragedia appena vissuta. Raccontavano, con un filo di voce, che nella loro barca c’erano tante, tante altre persone. Rimasti in mezzo al mare per giorni e giorni, mentre i governi europei discutevano su chi dovesse occuparsi di loro e i pescherecci di tutti i paesi del Mediterraneo facevano finta di niente. Morti uno ad uno, 73 cadaveri scivolati nel mare, anche quattro donne incinte, e i loro figlioletti nati prematuri e senza vita.

Non si è trattato di un incidente, ma di un omicidio indiretto e con moltissimi responsabili.

Non si è trattato di un caso isolato, ma solo di uno di quei pochi che emergono all’attenzione mediatica mentre infiniti altri rimangono nel silenzio.


ATTENZIONE !!!!

Ancora un respingimento collettivo verso la Libia.



Nella mattina del 24 novembre si è appreso dai notiziari Rai regionali che un gommone con 80 migranti che navigava in direzione di Lampedusa è stato intercettato in acque internazionali e ricondotto in Libia da due motovedette appartenenti al gruppo di imbarcazioni che nel mese di maggio l’Italia aveva donato alla guardia costiera libica, garantendo la formazione degli equipaggi e instaurando un comando centrale di coordinamento delle operazioni di respingimento, sulla base dei protocolli firmati a Tripoli nel 2007, poi finanziati dal Trattato di amicizia firmati da Berlusconi nell’agosto del 2008.
All’operazione di respingimento avrebbero partecipato anche due unità della marina maltese che avrebbe la competenza per il salvataggio ed il soccorso in quella zona del canale di Sicilia. Malta ha concluso da tempo un accordo con la Libia che prevede i respingimenti collettivi delle imbarcazioni cariche di migranti provenienti da quel paese ed adesso presta la sua fattiva collaborazione alle operazioni di respingimento disposte dal comando centrale italo-libico.

Un respingimento che rigetta verso le prigioni di Gheddafi, nelle mani di forze di polizia che sono ben note per gli abusi e la corruzione, ma con le quali i nostri agenti di collegamento collaborano quotidianamente, migranti che avrebbero avuto diritto ad entrare nel nostro territorio per presentare una domanda di asilo, come afferma anche la Corte di Cassazione che comprende nel diritto di asilo previsto dalla Costituzione anche il diritto di ingresso nel territorio.
Un respingimento delegato alle motovedette libiche, ma al quale hanno certamente partecipato, a livello di tracciamento e individuazione del gommone in rotta verso Lampedusa, anche la marina militare italiana, e la guardia di finanza, inserite nel sistema unico di coordinamento previsto dal protocollo d’intesa con la Libia richiamato nel Trattato di amicizia del 2008.

Nessun giornale, ancora una volta, darà notizia di questo respingimento, mentre uno spazio minimo viene dedicato dalla stampa locale all’arresto di cinque eritrei colpevoli di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni per essersi allontanati dal centro di accoglienza di Pozzallo, mentre altri naufraghi venivano arrestati con l’accusa di essere scafisti. Questo è il solo volto che l’Italia mostra oggi ai migranti, con la chiusura delle strutture e dei progetti di accoglienza e con l’inasprimento della sanzione penale dell’ingresso irregolare, l’univa via per entrare nel nostro paese per tante persone in fuga da guerre e persecuzioni.

2. Si continua a registrare dunque un silenzio tombale sulla questione dei respingimenti nelle acque internazionali del canale di Sicilia e dalle frontiere portuali dell’Adriatico. Nella gestione quotidiana dei rapporti tra Italia, Libia e Tunisia in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare, le scelte maturate negli anni passati, talvolta anche sulla base di accordi di “solidarietà nazionale”, fino alla approvazione del Trattato di amicizia con la Libia, stanno coprendo di vergogna e di ridicolo il governo italiano e le autorità militari che ne eseguono gli ordini. Vergogna per le gravissime violazioni dei diritti umani, anche ai danni di minori e vittime di violenza, ridicolo per la evidente sproporzione tra l’enfasi degli annunci ed i risultati conseguiti, soprattutto quando si parla di “blocco” della rotta di Lampedusa. Una misura che se ha fatto diminuire in modo significativo il numero degli immigrati che annualmente entrano in Italia “senza documenti”, ha sbarrato la strada a migliaia di richiedenti asilo o altre forme di protezione internazionale, la maggior parte di quelli fino ad oggi arrivati a Lampedusa, in fuga dai lager di Gheddafi.

Ma questo, per Maroni , è un “successo storico”, un risultato del quale vantarsi.

Non è bastata neppure ad interrompere i respingimenti in acque internazionali la denuncia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati che ha accusato la Marina militare di gravi abusi ai danni dei migranti recuperati nel Canale di Sicilia da unita militari battenti bandiera italiana, e dunque territorio nazionale, prima di riconsegnarli alle autorità libiche. Le autorità italiane si sono limitate a modificare le procedure ed a riconsegnare i naufraghi alle motovedette libiche ai confini delle acque territoriali, senza arrivare più a sbarcare i migranti entrando direttamente nel porto di Tripoli come avvenuto nei giorni 7 ed 8 maggio di quest’anno. Un caso nel caso, sul quale dovrà pronunciarsi adesso la Corte Europea dei diritti dell’uomo.

Anche le critiche tardive giunte dall’attuale opposizione sono state ignorate. Non si può dimenticare del resto, proprio alla luce di quanto sta facendo l’attuale governo italiano, un autentico massacro preordinato di esseri umani, che la collaborazione con la Tunisia e la Libia, con la esternalizzazione dei controlli di frontiera, ed il blocco a mare delle imbarcazioni dei migranti, risale a molti anni fa, e precisamente al 1998 con Napolitano come ministro dell’interno, autore dei primi accordi di riammissione con la Tunisia, e poi dal 2003 in poi con Prodi, presidente della commissione Europea e quindi capo del governo italiano nel 2006, sempre con l’appoggio di Napolitano, allora sostenitore degli accordi con la Libia, come documentato da un articolo del Corriere della sera del 19 settembre 2004, pochi mesi dopo il caso Cap Anamur, e appena qualche giorno prima dei respingimenti collettivi da Lampedusa verso la Libia, poi condannati dal Parlamento Europeo. Il governo Prodi non era riuscito neppure ad abrogare quell’infame decreto ministeriale del 14 luglio del 2003 che, in attuazione delle modifiche introdotte nel 2002 con la legge Bossi-Fini, prevedeva il “respingimento” delle imbarcazioni cariche di migranti “ verso i porti di provenienza”, una legalizzazione dei respingimenti collettivi vietati da tutte le convenzioni internazionali, oltre che una violazione palese dell’art. 10 della Costituzione italiana. Ed il Trattato di amicizia con la Libia è stato approvato nel febbraio del 2009 con il voto di quasi tutta l’attuale opposizione.

3. Gli attuali governanti italiani si sentono forti di un consenso elettorale “estorto” sull’onda della paura e dell’egoismo sociale, alimentando le peggiori fobie di una parte ( di fatto) minoritaria della popolazione, sfruttando le conseguenze di una crisi economica di cui sono i primi responsabili e che invece si vuole scaricare sugli ultimi arrivati. Ed adesso questi rappresentanti di un Italia sempre più chiusa e razzista, si sentono autorizzati a violare Costituzione, Convenzioni internazionali, ed anche Regolamenti Comunitari, come il Codice delle Frontiere Schengen del 2006, normativa vincolante nel nostro paese, ma elusa sistematicamente non solo nelle acque del Canale di Sicilia, ma anche alle frontiere portuali dell’Adriatico ( Venezia, Ancona, Bari, Brindisi) con i respingimenti “informali” di minori e potenziali richiedenti asilo verso la Grecia. I sondaggi valgono ormai più della Costituzione e degli impegni internazionali. E gli appelli del Presidente della Repubblica alla “coesione nazionale” rafforzano l’arroganza di chi gestisce la politica dei respingimenti sapendo di potere contare su una parte dell’opposizione che ha spianato la strada agli accordi di respingimento collettivo verso i paesi nordafricani.

Nelle acque del canale di Sicilia l’arretramento delle posizioni della Marina militare italiana, prima dislocata più a sud, anche in funzione di salvataggio dei barconi carichi di migranti, e il maggiore ambito di azione nelle acque internazionali, riconosciuto alle motovedette a bandiera libica ( ma a bordo non dovevano esserci anche militari italiani?) stanno chiudendo la via di fuga ai potenziali richiedenti asilo, ma stanno anche tagliando le possibilità di pesca e dunque di sopravvivenza dell’intera marineria di Mazara del Vallo, alla quale partecipano, tra gli altri, numerosi lavoratori tunisini. I militari libici si sono permessi una facile ironia, ricordando alcuni mesi fa agli ultimi pescatori mazaresi vittima di un sequestro, bloccati anche durante il viaggio di ritorno in Italia, che i mezzi che condurranno in futuro nei porti libici le unità da pesca italiane che dovessero essere sorprese a più di 73 miglia a nord del confine libico, saranno proprio le motovedette fornite dall’Italia alla Libia per contrastare l’immigrazione clandestina.

4. I respingimenti “informali” in acque internazionali, come la pratica delle “riammissioni” verso la Grecia, denunciata da tempo alle frontiere portuali dell’Adriatico violano il diritto a entrare o a rimanere ( se a bordo di una nave battente bandiera italiana) nel territorio italiano per il tempo necessario per l’accertamento dell’età, per il tempo necessario per l’esame della domanda di protezione internazionale, per verificare se comunque la persona si trova in una situazione di inespellibilità, alla quale va equiparato il divieto di respingimento (refoulement).

Le pratiche di respingimento da parte della polizia marittima, a terra come a mare, al di là della ambigua formulazione dell’art. 10 del T.U. sull’immigrazione del 1998, violano diverse disposizioni della Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia del 1989, delle Direttive comunitarie in materia di accoglienza (2003/9/CE), di qualifiche (2004/83/CE) e di procedure di asilo( 2005/85/CE) relative ai richiedenti protezione internazionale, il Regolamento delle frontiere Schengen del 2006, oltre che le disposizioni interne di attuazione. Presto anche la Commissione Europea potrebbe aprire una procedura di infrazione a carico dell’Italia per la violazione reiterata del diritto comunitario in materia di asilo, protezione internazionale e controllo delle frontiere.

Ma le condanne più gravi arriveranno ( e in qualche caso sono già arrivate) dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. E’ bene che i nostri governanti sappiano che per quanto siano lunghi i tempi per la conclusione dei processi, queste condanne stabiliranno la responsabilità di mandanti politici ed esecutori militari, malgrado i tentativi dilatori posti in essere per eludere le richieste di informazione da parte della Corte. Potranno fare sparire i corpi delle vittime degli abusi, ma questo non potrà che aggravare le responsabilità di chi ritiene di potere violare impunemente la Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo.

Ma quello che è più grave, e che non si era mai verificato in precedenza, è che oggi viene messa in discussione dal governo italiano, oltre alla giurisdizione della CEDU, anche la stessa possibilità effettiva di presentare un ricorso individuale alla Corte di Strasburgo. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, seconda Sezione, il 18 novembre 2008, ai sensi dell’articolo 39 CEDU ha ravvisato la possibile violazione dell’art. 34 CEDU intimando allo Stato italiano di sospendere l’espulsione di un cittadino afghano verso la Grecia fino al 10 dicembre 2008 (CEDH-LF2.2R, EDA/cbo, Requete n°55240/08, M. c. Italie). Lo stesso diritto di ricorso effettivo viene negato ai migranti bloccati nelle acque del canale di Sicilia e riconsegnati alle motovedette libiche, esattamente come ai migranti afghani ed irakeni respinti “senza formalità” dalle frontiere portuali dell’Adriatico verso la Grecia.

Nelle concrete modalità di esecuzione delle misure di “riammissione” in Grecia ed in Libia si riscontra infine una violazione del divieto di espulsioni collettive (nelle quali vanno compresi anche i casi di respingimento collettivo) sancito dall’art. 4 del Protocollo 4 allegato alla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo. Lo stesso divieto è ribadito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Certo, si tratta di casi nei quali non è facile fornire prove documentali, e appunto per questo i respingimenti vengono effettuati “senza formalità”, e in ogni caso non è agevole trovare nei paesi di transito come la Libia o la Tunisia avvocati indipendenti, in modo da far sottoscrivere una procura per una denuncia o per un ricorso. Per questo sollecitiamo la responsabilità di tutte le agenzie internazionali preposte alla prevenzione, oltre che alla sanzione, delle violazioni dei diritti fondamentali della persona, che operano nei paesi di transito.

Di fronte alla gravità ed al ripetersi delle procedure di riammissione verso la Libia e la Grecia occorre individuare forme di rappresentanza collettiva delle tante vittime delle procedure amministrative di immediato respingimento verso i porti di provenienza che sarebbero eseguite ai sensi dell’art. 10 comma 1 del Testo Unico sull’immigrazione del 1998, una norma che dovrebbe essere spazzata via da un rigoroso controllo di costituzionalità.

Vanno costruiti rapporti con le famiglie delle vittime dell’immigrazione clandestina, anche al fine di garantire la prosecuzione dei processi davanti alle corti internazionali, una volta che i migranti, magari dopo avere fatto ricorso, vengano fatti sparire” dalle autorità di polizia, per cancellare gli abusi che sono stati commessi e sui quali stanno indagando i giudici internazionali.
Per queste ragioni spetta alle organizzazioni non governative ed alle reti nazionali dei migranti presenti in Italia, creare una rete diffusa sul territorio nazionale, ed anche nei paesi di origine e di transito, in modo da garantire un monitoraggio continuo, raccogliere la documentazione, diffondere le informazioni su quanto accade e ricorrere a tutti gli strumenti legali interni ed internazionali per denunciare quanto sta avvenendo alle frontiere marittime dell’Adriatico e nel Canale di Sicilia.

Questo articolo è stato scritto da : Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo pubblicato sul sito www.meltingpot.org


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lunedì 16 novembre 2009

Regali alle mafie

Dopo l'assassinio mafioso del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, avvenuto il 3 settembre del 1982, fu approvata la legge Rognoni-La Torre.
La Legge introduceva il reato di associazione mafiosa ed una norma che prevedeva la confisca dei beni ai mafiosi e il loro ''riutilizzo sociale'' (scopo poi raggiunto dall'associazione Libera, che raccolse un milione di firme al fine di presentare una proposta di legge, che si concretizzò poi nella legge 109/96).
I beni acquistati dalla criminalità con soldi sporchi di sangue, grazie a questa legge sono diventati beni di tutti.
Grazie alla legge Rognoni-La Torre sequestri e confische sono state fatte dappertutto.
I beni confiscati alle mafie hanno dato lavoro a tantissimi giovani.




Perchè allora questo governo vuole cambiarla?

Con l'emendamento votato venerdì al Senato che consente la vendita dei beni immobili confiscati alle mafie, viene di fatto tradito l'impegno assunto con il milione di cittadini che nel 1996 firmarono la proposta per la legge sull'uso sociale dei beni confiscati alla mafia e la loro restituzione alla collettività.
Il divieto di vendere questi beni è un principio che non può e non deve, salvo eccezioni, essere messo in discussione. Se l'obbiettivo è quello di recuperare risorse finanziarie strumenti già ce ne sono, a partire dal "Fondo unico giustizia" alimentato con i soldi "liquidi" sottratti alle attività criminali, di cui una parte deve essere destinata prioritariamente ai famigliari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia.
Ma è un tragico errore vendere i beni correndo di fatto il rischio di restituirli alle organizzazioni criminali, capaci di mettere in campo ingegnosi sistemi di intermediari e prestanome e già pronte per riacquistarli, come ci risulta da molteplici segnali arrivati dai territori più esposti all'influenza dei clan.
Facciamo un appello a tutte le forze politiche perché questo emendamento, che rischia di tradursi in un ulteriore "regalo" alle mafie, venga abolito nel passaggio alla Camera».


Luigi Ciotti
Presidente di Libera


...Se l'emendamento votato al Senato dovesse essere confermato nel testo definitivo della Finanziaria, non solo si rischierebbe di far tornare sottobanco nelle mani delle mafie quello che e' stato loro confiscato, non solo si depotenzierebbe e si svuoterebbe di significato lo strumento della confisca (uno strumento che ha consentito di colpire le criminalita' organizzate la' dove sono piu' sensibili, vale a dire nei loro interessi economici), ma verrebbe tradito il valore simbolico e culturale della legge 109: l'idea per cui la collettivita' si riappropria del 'maltolto''. ( parole di Paolo Beni, presidente nazionale Arci e Alessandro Cobianchi, responsabile area legalita' democratica)



Si è fatta tanta fatica e ora si corre il rischio che tutto torni nelle mani dei mafiosi.

Attenzione, questo governo sta facendo un vero e proprio regalo alle cosche !
Se l'emendamento sarà trasformato in legge, a riaquistare i beni confiscati saranno i clan attraverso prestanomi e società finanziarie



Una volta si diceva ''che con l'antimafia non si mangia e che quando c'era la mafia lavoravano tutti''.

L'associazione Libera di don Luigi Ciotti, sta ribaltando questa subcultura.
Infatti in questi anni Libera ha dimostrato il contrario.

Un esempio per tutti?

In Sicilia, al centro di Palermo in piazza Castelnuovo 13 , quello che fino al 1994 era un negozio di abbigliamento maschile, situato nel cuore dello 'struscio' e dello shopping palermitano, appartenente ad un boss di Brancaccio, grazie alla legge 109 del 1996, ora è la Bottega dei sapori e dei saperi della legalita' di Libera Palermo.
All'interno delle botteghe di Libera si trovano in bella vista, pacchi di pasta che vengono prodotti nella ex-proprietà di Provenzano, l'olio di Castelvetrano delle terre di Matteo Messina Denaro, i vasetti di peperoncino provenienti dai terreni sequestrati in Calabria ai Mammoliti e Piromalli, il vino Cento Passi prodotto nel corleonese, i pomodorini secchi prodotti sui terreni della Sacra Corona Unita... ecc.








Questo governo

  1. ha proposto di limitare le intercettazioni telefoniche
  2. ha varato lo scudo fiscale
  3. ha proposto la vendita all'asta dei beni confiscati alle mafie


" La mafia non sarà mai sconfitta se non cambia profondamente la politica ".

(Carlo Alberto Dalla Chiesa)


Firma l'appello: Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra



Fonte: www.libera.it

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domenica 8 novembre 2009

Ipocrisia e ingiustizia

Oggi come ieri, ipocrisia, ipocrisia, ipocrisia...





CARA MAESTRA


Cara maestra,

un giorno m'insegnavi

che a questo mondo noi

noi siamo tutti uguali.

Ma quando entrava in classe il direttore

tu ci facevi alzare tutti in piedi,

e quando entrava in classe il bidello

ci permettevi di restar seduti.


Mio buon curato,

dicevi che la chiesa

è la casa dei poveri,

della povera gente.

Però hai rivestito la tua chiesa

di tende d'oro e marmi colorati:

come può adesso un povero che entra

sentirsi come fosse a casa sua?


Egregio sindaco,

m' hanno detto che un giorno

tu gridavi alla gente

"vincere o morire".

Ora vorrei sapere come mai

vinto non hai, eppure non sei morto,

e al posto tuo è morta tanta gente

che non voleva né vincere né morire?



A proposito di ipocrisia e ingiustizia vi invito a leggere questo articolo- denuncia scritto e pubblicato dal gruppo EveryOne.

L'articolo denuncia gravissimi episodi di razzismo nei confronti di romanì a Pesaro, città amministrata da una coalizione di sinistra

martedì 3 novembre 2009

“U stisso sangu”

Da circa quattro anni, mi trovavo per motivi di studio a frequentare la vicina città di Pachino dove da circa 10-15 anni c’è un movimento massiccio di migranti, provenienti principalmente dalla Tunisia, Marocco e Algeria. La cosa con cui mi sono scontrato subito è il pregiudizio di una buona parte della gente, che giornalmente non faceva altro che parlare di migranti con un senso di disagio. Nonostante i migranti fossero gli stessi che raccoglievano il famoso pomodorino di Pachino. Provai un certo imbarazzo, non ero preparato sull’argomento, ma non posso dimenticare un giorno una mia collega, che mi disse che la sera preferiva non uscire di casa perché fuori dalla sua porta tutte le sere c’erano dei migranti fermi a bivaccare, e aveva paura di essere aggredita. Da qui mi convinsi che dovevo in qualche modo capire davvero, cosa stava succedendo. C’era qualcosa o meglio qualcuno che da diversi anni stava facendo una campagna che individua il nemico «nell’uomo nero», come quello delle fiabe per bambini, ma con una sottile differenza, che questo è un essere umano e che ha diritto di esistere come tutti. C’era bisogno di questo lavoro, per i miei coetanei e non solo, ma soprattutto per chi, fino ad ora aveva un idea di migrazione che leggeva solo sulle testate nazionali o delle notizie dei telegiornali che riportavano solo informazioni legate alla politica nazionale. (tratto dall'intervista al regista, Francesco Di Martino, su Carta del 24 settembre 2009 )
Leggi l'articolo per intero quì

“U stisso sangu” non è un film, ma un racconto.

Il racconto di come la parola “viaggio” si possa trasformare nel termine “speranza”, e di come la prospettiva di un mondo possa cambiare, a seconda che lo si guardi da una parte o dall’altra del Mediterraneo.

“U stisso sangu” racconta il dramma dei migranti che arrivano in Sicilia, attraverso le loro parole, i loro sguardi, le loro storie.

Dallo sbarco ai centri di accoglienza e identificazione, fino all’incertezza, alla paura e all’umiliazione, l’odissea moderna parte dalla disperazione e dai sogni di uomini e donne, per scontrarsi con la burocrazia e, ancor più grave, con la cultura di un mondo che spesso pare dimenticare che abbiamo tutti “U stisso sangu”.

Un essere vivente, una persona, si trasforma così in un “clandestino”: un possibile problema che ha bisogno di normative e di certificazioni, di accertamenti e perquisizioni che non lasciano solo l’inchiostro sulle dita, ma anche un profondo senso di umiliazione.

Non c’è più lo stesso sangue, non esiste più la persona. (S.Zuccarello)




U Stisso Sangu - Storie più a Sud di Tunisi from francescodimartino on Vimeo.




Sinossi: Il film ripercorre le tappe fondamentali che, in maniera diversa, affrontano i migranti che approdano sulle coste siciliane: il viaggio e lo sbarco, la prima accoglienza e il problema della casa, il lavoro e l’integrazione.Le storie si incrociano e a volte si scontrano con quelle della nostra realtà: la Guardia Costiera che li recupera in mare, il medico che presta loro i primi soccorsi, il reporter che segue le loro vicende, l’imprenditore che li prende a lavorare nei campi, il personale della comunità che li ospita, lo “sconosciuto” che pure assiste al rito di commemorazione di quelli tra loro che sono morti in mare.


Il film si apre a Portopalo di Capopassero, una cittadina di pescatori nell’estrema punta sudorientale della Sicilia: le sue coste, da aprile a novembre, nella cosiddetta ‘stagione degli sbarchi’, diventano punto di approdo di tutte le imbarcazioni partite dalla Libia che deviano o si smarriscono dalla consueta rotta che nella maggior parte dei casi le conduce invece a Lampedusa.

Un pescatore canuto del luogo, portavoce del malcontento degli abitanti, commenta candidamente, lasciando poco spazio al beneficio del dubbio, i comportamenti dei migranti che di tanto in tanto, secondo lui, si sbronzerebbero vicino alla sua barca. “Se non fosse per i marocchini, qui sarebbe tutto pulito. Lasciano per terra le bottiglie di birra vuote creando un macello. Sono tanti. Qua siamo più a sud di Tunisi!” sbotta. E in effetti, così come spiega un giornalista locale, sono molti gli immigrati che sbarcano al porto. Le barche in cui sono stipati sono in realtà dirette a Lampedusa.

Le telecamere si spostano poi a Caltanissetta, per documentare la tappa immediatamente successiva allo sbarco. Al CPTA di Pian del Lago, decine di afghani vivono da giorni, senza cibo né acqua per bere e lavarsi, nutrendosi di mandorle raccolte dagli alberi di un vicino campo, impossibilitati ad entrare nella struttura, sovraffollata, ma con l’ordine di non allontanarsi. Per via della loro nazionalità, sono da considerarsi rifugiati, e reclamano quindi la possibilità di stare sotto un tetto e di ricevere l’assistenza di base.

Altra vicenda di accoglienza, altra anomalia: ad Avola la Croce Rossa ha allestito una Tendopoli per accogliere gli immigrati, che nella stagione dei raccolti affollano la vicina città di Cassibile. La Croce Rossa ha però già stabilito la chiusura a fine giugno. Qui aveva trovato riparo un gruppo di Somali, una volta usciti dal CPA e ottenuti i documenti.

A luglio si trovano nelle terre del Marchese di Cassibile, dove hanno dovuto creare, con mezzi di fortuna, la loro tendopoli: dormono sotto gli alberi, i più fortunati in due sulla stessa brandina recuperata in qualche casolare abbandonato; non hanno acqua potabile, e mangiano il cibo cotto sul fuoco all’aperto, poggiandolo per terra sui sacchi della spazzatura. Ci confessano che se i loro familiari conoscessero le condizioni in cui stanno vivendo si meraviglierebbero, tuttavia nutrono ancora forti speranze, vogliono andare a scuola, imparare l’italiano e condurre una vita normale e dignitosa.

Rimaniamo a Cassibile e affrontiamo la questione del lavoro con un giovane imprenditore agricolo siciliano. Dice che ogni anno, quando inizia la raccolta della patata, ha difficoltà a reperire manodopera: gli italiani non sono disposti a svolgere un lavoro così umile, per questo motivo assume extracomunitari con regolare permesso di soggiorno, anche se, confessa, diventa sempre più difficile trovare immigrati in regola”.

Tappa conclusiva, infine, è Modica. Qui alcune donne, anche loro somale e richiedenti asilo, spiegano i motivi per cui hanno abbandonato il loro paese d’origine. Colpisce la grinta che traspare dalle lacrime di una di loro: “Quando potrò tornare nel mio paese, girerò un video per testimoniare le torture che siamo costretti a sopportare”. Si succedono le immagini della commemorazione dei morti di Vendicari e le parole di Rachida, marocchina integratasi a Marzamemi.

Tutte testimonianze che trascinano lo spettatore nel cuore della realtà vissuta da uomini e donne di colore e culture diverse dalle nostre. Ma con lo stesso sangue.



Avete presente “La giara”, il racconto di Pirandello ?

I lavoratori stagionali, i raccoglitori di olive, i cosiddetti “jurnatari” sono vittime del padrone tirchio ed iracondo, ma si concedono persino una serata di festa intorno alla giara di don Lollò. Sicuramente la realtà del lavoro agricolo nelle campagne siciliane era meno bucolica ed allegra, ma su un aspetto non c’era discussione: spettava al padrone l’ospitalità dei lavoratori. Seppure in masserie e con sistemazioni non comodissime, gli stagionali non dovevano però preoccuparsi dell’acqua potabile o di un tetto per la notte.

Non è più così oggi nelle campagne del Meridione, e lo ricorda uno degli intervistati di Cassibile intervistati nel documentario "U stisso sangu". I lavoratori devono accamparsi dove capita, oppure è lo Stato, per esempio con una inutile tendopoli che accoglieva solo i regolari o che si trovava a decine di chilometri dai campi, a “risolvere” il problema dell’ospitalità.

I lavoratori stranieri, le testimonianze sono unanimi, tengono in piedi l’economia agricola delle campagne. Eppure non hanno il riconoscimento economico di paghe dignitose, o quello giuridico di uno Stato che nega la loro esistenza, e vorrebbe imporre alle imprese l`assunzione di lavoratori sconosciuti, che si trovano dall’altra parte del mondo.


Oggi nessuno più vuol lavorare nei campi. Loro sono la nostra unica risorsa” afferma un giovane agricoltore.

Ho voluto fotografare e pubblicate questa foto per farvi vedere in quali impianti agricoli sono costretti a lavorare ( sottopagati e in nero) i lavoratori stranieri.



Queti impianti chiamati tunnel, raggiungono appena il metro e mezzo di altezza , sono lunghi 50 metri, vi si può lavor
are solo camminando carponi, non ci sono uscite laterali e in estate all'interno si raggiungono temperature di oltre 50° gradi. Vi si coltivano zucchine e meloni


Sintetizza bene la questione Fabrizio Gatti: solo un giorno di sciopero, un solo giorno, servirebbe a far capire agli italiani il ruolo oggi assunto dai lavoratori stranieri. Basterebbero ventiquattro ore per far comprendere a tutto il Paese che interi settori economici sarebbero paralizzati, e che questa gente merita maggior rispetto ed il riconoscimento dei propri diritti. Oggi, invece, sono disprezzati, marginalizzati, eppure tremendamente necessari.

In queto blog, in attesa di poter vedere l’intero documentario, gli autori ( Enrico Montalbano, Angela Giardina e Ilaria Sposito) hanno pubblicato un’anteprima del film documentario la "Terra(e)strema”. Girato nelle campagne della Sicilia per raccontare il lavoro dei braccianti immigrati. Inizia nella primavera del 2007, a Cassibile, frazione di Siracusa, il viaggio nella "Terra(e)strema”, il nuovo documentario di Enrico Montalbano, Angela Giardina e Ilaria Sposito. Girato nelle campagne della Sicilia per raccontare il lavoro dei braccianti immigrati. Ad Avola e Cassibile, ogni anno, per la raccolta delle patate, da maggio a giugno, si presentano centinaia di braccianti dal Nord Africa e dall’Est Europa. Vivono in accampamenti di fortuna, nei campi, a volte insultati e aggrediti dai residenti locali. Giampaolo e Pina, due abitanti di Cassibile spiegano come il borgo è cambiato. Il viaggio continua a Pachino, terra di pomodori, e poi verso ovest a Vittoria e Gela, verso le terre dei vigneti e degli oliveti, per poi terminare ad Alcamo, Campobello di Mazara e Giuseppe Jato.

" Questo è il racconto di un film documentario, lo spazio di riflessione e accoglienza per quelle persone che hanno girato per due anni le zone rurali della Sicilia in modo da potere raccontare cosa succede “in campagna”, cosa succede a soggetti che sono diventati invisibili ai più, al mondo urbano e metropolitano: il coltivatore, il bracciante, l'operaio agricolo, ma soprattutto il bracciante straniero, uomo o donna, più uomini che donne, che invisibili lavorano, sopravvivono, o muoiono “in campagna” per due soldi."

Invece sul sito www.lostessosangue.com è possibile organizzare una proiezione pubblica del documentario oppure acquistarlo in DVD.


Fonti:www.ustissosangu.com, www.carta.org,www.step1.it,www.terrelibere.org