Ascoltate Josè Saramago intervistato da Serena Dandini

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mercoledì 25 novembre 2009

L’Italia respinge altri 80 esseri umani nelle mani dei carcerieri libici

Il 23 e il 24 Novembre i ministri dei paesi del Mediterraeno Occidentale (tra cui Malta (dove si viene imprigionati per più di un anno anche se si è bambini, anche se si è dei rifugiati), la Libia (che nelle sue prigioni finanziate dal governo italiano, dove l’Italia respinge illegalmente i richiedenti asilo politico, le persone vengono torturate, a volte uccise, deportate , la Tunisia, la Mauritania, ma anche la Spagna e il Marocco (che hanno collaborato nell’uccisione a freddo di decine di migranti alla frontiera tra le enclaves di Ceuta e Melilla), si sono riuniti a Venezia, barricati sull’isola di San Servolo per parlare di sicurezza e di contrasto all'imigrazione.

Le associazioni veneziane antirazziste avevano chiesto l’autorizzazione ad esprimere il loro pacifico dissenso.
Dall’Accademia sarebbe dovuta partire una barca verso San Giorgio, per una simbolica performance di sensibilizzazione e denuncia.

Tutto era autorizzato fino alle sette della sera prima; a quell’ora, infatti, chi aveva chiesto l’autorizzazione è stato riconvocato d’urgenza in questura per sentirsi dire che le cose erano cambiate, che il Ministro degli Interni, in modo perentorio, diretto e insindacabile, aveva vietato la parte acquea della manifestazione.
Ok, niente barca, niente bacino, ma il presidio sì, con le concordate forme pacifiche e creative.

Questi gli accordi presi fino alla sera prima.

Ma ieri all’Accademia la polizia era di altro avviso:
"se tirate fuori i manichini dobbiamo intervenire" dice subito il dirigente Digos, mentre degli "inviati" romani, mandati direttamente dal Ministero, restano ai margini a controllare, a valutare anzi, la condotta dei loro colleghi della Questura di Venezia, visibilmente imbarazzati di fronte ad ordini così ingiustificabili: caricare una manifestazioni autorizzata perché a Maroni danno fastidio tre manichini di cartapesta e tutto quello che possono evocare e rappresentare.




Una donna incinta, un bambino e un padre, il più alto misura un metro e venti. Una famiglia di carta pesta

I manifestanti, società civile di tutte le età, a volto completamente scoperto, signore e studenti, con le mani alzate, si ritrovano nella grottesca, incredibile situazione di dovere difendere coi loro corpi dei manichini di carta.

La polizia si avvicina, schiaccia i manifestanti dopo averli circondati da tutti i lati.





Si cerca di impedire che le telecamere della Rai e i giornalisti locali possano filmare o fotografare i tre manichini. Tanto fastidio danno questi simboli di dissenso e solidarietà, di "pietas" e di denuncia. La polizia si avvicina, hanno l’ordine chiaro di caricare. Alzano i manganelli, si mettono i caschi, schiacciano i corpi dei manifestanti con i loro scudi. parte qualche colpo, viene strappato il microfono a chi stava denunciando questo ingiustificabile attacco alla democrazia, alla libertà di pensiero e parola.
Ma la parte coraggiosa e civile di una Venezia che difende i suoi veri valori riesce a mostrare cosa significa veramente disobbedire a delle imposizioni ingiustificabili. Troppi giornalisti esterrefatti, troppa gente che si ferma in solidarietà vedendo quella violenza scagliarsi addosso a una manifestazione del genere. La polizia deve allontanarsi, il microfono torna in mano a chi sta conducendo questa battaglia di civiltà. I manichini vengono salvati e fotografati. Solo uno, il papà, è stato "arrestato", forse per reato di immigrazione clandestina commesso da un cadavere di carta pesta.
Alla fine sono i manifestanti stessi a consegnare alla polizia i manichini: li volevate tanto? Noi adesso, decidiamo di consegnarveli. Questo è un bambino morto di fame, freddo e disidratazione il 10 agosto del 2009, su una barca, sotto gli occhi del Ministro che voi oggi avete difeso anche a costo di mettervi contro le più elementari norme di democrazia di questo paese alla deriva.

Per la galleria fotografica e l'articolo completo vai su globalproject.info


Era il 20 agosto del 2009 quando la guardia di finanza italiana riportava a terra cinque eritrei intercettati in mare, a largo di Lampedusa. Erano una donna, due uomini e due ragazzini. Nei loro occhi restava l’orrore di una tragedia appena vissuta. Raccontavano, con un filo di voce, che nella loro barca c’erano tante, tante altre persone. Rimasti in mezzo al mare per giorni e giorni, mentre i governi europei discutevano su chi dovesse occuparsi di loro e i pescherecci di tutti i paesi del Mediterraneo facevano finta di niente. Morti uno ad uno, 73 cadaveri scivolati nel mare, anche quattro donne incinte, e i loro figlioletti nati prematuri e senza vita.

Non si è trattato di un incidente, ma di un omicidio indiretto e con moltissimi responsabili.

Non si è trattato di un caso isolato, ma solo di uno di quei pochi che emergono all’attenzione mediatica mentre infiniti altri rimangono nel silenzio.


ATTENZIONE !!!!

Ancora un respingimento collettivo verso la Libia.



Nella mattina del 24 novembre si è appreso dai notiziari Rai regionali che un gommone con 80 migranti che navigava in direzione di Lampedusa è stato intercettato in acque internazionali e ricondotto in Libia da due motovedette appartenenti al gruppo di imbarcazioni che nel mese di maggio l’Italia aveva donato alla guardia costiera libica, garantendo la formazione degli equipaggi e instaurando un comando centrale di coordinamento delle operazioni di respingimento, sulla base dei protocolli firmati a Tripoli nel 2007, poi finanziati dal Trattato di amicizia firmati da Berlusconi nell’agosto del 2008.
All’operazione di respingimento avrebbero partecipato anche due unità della marina maltese che avrebbe la competenza per il salvataggio ed il soccorso in quella zona del canale di Sicilia. Malta ha concluso da tempo un accordo con la Libia che prevede i respingimenti collettivi delle imbarcazioni cariche di migranti provenienti da quel paese ed adesso presta la sua fattiva collaborazione alle operazioni di respingimento disposte dal comando centrale italo-libico.

Un respingimento che rigetta verso le prigioni di Gheddafi, nelle mani di forze di polizia che sono ben note per gli abusi e la corruzione, ma con le quali i nostri agenti di collegamento collaborano quotidianamente, migranti che avrebbero avuto diritto ad entrare nel nostro territorio per presentare una domanda di asilo, come afferma anche la Corte di Cassazione che comprende nel diritto di asilo previsto dalla Costituzione anche il diritto di ingresso nel territorio.
Un respingimento delegato alle motovedette libiche, ma al quale hanno certamente partecipato, a livello di tracciamento e individuazione del gommone in rotta verso Lampedusa, anche la marina militare italiana, e la guardia di finanza, inserite nel sistema unico di coordinamento previsto dal protocollo d’intesa con la Libia richiamato nel Trattato di amicizia del 2008.

Nessun giornale, ancora una volta, darà notizia di questo respingimento, mentre uno spazio minimo viene dedicato dalla stampa locale all’arresto di cinque eritrei colpevoli di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni per essersi allontanati dal centro di accoglienza di Pozzallo, mentre altri naufraghi venivano arrestati con l’accusa di essere scafisti. Questo è il solo volto che l’Italia mostra oggi ai migranti, con la chiusura delle strutture e dei progetti di accoglienza e con l’inasprimento della sanzione penale dell’ingresso irregolare, l’univa via per entrare nel nostro paese per tante persone in fuga da guerre e persecuzioni.

2. Si continua a registrare dunque un silenzio tombale sulla questione dei respingimenti nelle acque internazionali del canale di Sicilia e dalle frontiere portuali dell’Adriatico. Nella gestione quotidiana dei rapporti tra Italia, Libia e Tunisia in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare, le scelte maturate negli anni passati, talvolta anche sulla base di accordi di “solidarietà nazionale”, fino alla approvazione del Trattato di amicizia con la Libia, stanno coprendo di vergogna e di ridicolo il governo italiano e le autorità militari che ne eseguono gli ordini. Vergogna per le gravissime violazioni dei diritti umani, anche ai danni di minori e vittime di violenza, ridicolo per la evidente sproporzione tra l’enfasi degli annunci ed i risultati conseguiti, soprattutto quando si parla di “blocco” della rotta di Lampedusa. Una misura che se ha fatto diminuire in modo significativo il numero degli immigrati che annualmente entrano in Italia “senza documenti”, ha sbarrato la strada a migliaia di richiedenti asilo o altre forme di protezione internazionale, la maggior parte di quelli fino ad oggi arrivati a Lampedusa, in fuga dai lager di Gheddafi.

Ma questo, per Maroni , è un “successo storico”, un risultato del quale vantarsi.

Non è bastata neppure ad interrompere i respingimenti in acque internazionali la denuncia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati che ha accusato la Marina militare di gravi abusi ai danni dei migranti recuperati nel Canale di Sicilia da unita militari battenti bandiera italiana, e dunque territorio nazionale, prima di riconsegnarli alle autorità libiche. Le autorità italiane si sono limitate a modificare le procedure ed a riconsegnare i naufraghi alle motovedette libiche ai confini delle acque territoriali, senza arrivare più a sbarcare i migranti entrando direttamente nel porto di Tripoli come avvenuto nei giorni 7 ed 8 maggio di quest’anno. Un caso nel caso, sul quale dovrà pronunciarsi adesso la Corte Europea dei diritti dell’uomo.

Anche le critiche tardive giunte dall’attuale opposizione sono state ignorate. Non si può dimenticare del resto, proprio alla luce di quanto sta facendo l’attuale governo italiano, un autentico massacro preordinato di esseri umani, che la collaborazione con la Tunisia e la Libia, con la esternalizzazione dei controlli di frontiera, ed il blocco a mare delle imbarcazioni dei migranti, risale a molti anni fa, e precisamente al 1998 con Napolitano come ministro dell’interno, autore dei primi accordi di riammissione con la Tunisia, e poi dal 2003 in poi con Prodi, presidente della commissione Europea e quindi capo del governo italiano nel 2006, sempre con l’appoggio di Napolitano, allora sostenitore degli accordi con la Libia, come documentato da un articolo del Corriere della sera del 19 settembre 2004, pochi mesi dopo il caso Cap Anamur, e appena qualche giorno prima dei respingimenti collettivi da Lampedusa verso la Libia, poi condannati dal Parlamento Europeo. Il governo Prodi non era riuscito neppure ad abrogare quell’infame decreto ministeriale del 14 luglio del 2003 che, in attuazione delle modifiche introdotte nel 2002 con la legge Bossi-Fini, prevedeva il “respingimento” delle imbarcazioni cariche di migranti “ verso i porti di provenienza”, una legalizzazione dei respingimenti collettivi vietati da tutte le convenzioni internazionali, oltre che una violazione palese dell’art. 10 della Costituzione italiana. Ed il Trattato di amicizia con la Libia è stato approvato nel febbraio del 2009 con il voto di quasi tutta l’attuale opposizione.

3. Gli attuali governanti italiani si sentono forti di un consenso elettorale “estorto” sull’onda della paura e dell’egoismo sociale, alimentando le peggiori fobie di una parte ( di fatto) minoritaria della popolazione, sfruttando le conseguenze di una crisi economica di cui sono i primi responsabili e che invece si vuole scaricare sugli ultimi arrivati. Ed adesso questi rappresentanti di un Italia sempre più chiusa e razzista, si sentono autorizzati a violare Costituzione, Convenzioni internazionali, ed anche Regolamenti Comunitari, come il Codice delle Frontiere Schengen del 2006, normativa vincolante nel nostro paese, ma elusa sistematicamente non solo nelle acque del Canale di Sicilia, ma anche alle frontiere portuali dell’Adriatico ( Venezia, Ancona, Bari, Brindisi) con i respingimenti “informali” di minori e potenziali richiedenti asilo verso la Grecia. I sondaggi valgono ormai più della Costituzione e degli impegni internazionali. E gli appelli del Presidente della Repubblica alla “coesione nazionale” rafforzano l’arroganza di chi gestisce la politica dei respingimenti sapendo di potere contare su una parte dell’opposizione che ha spianato la strada agli accordi di respingimento collettivo verso i paesi nordafricani.

Nelle acque del canale di Sicilia l’arretramento delle posizioni della Marina militare italiana, prima dislocata più a sud, anche in funzione di salvataggio dei barconi carichi di migranti, e il maggiore ambito di azione nelle acque internazionali, riconosciuto alle motovedette a bandiera libica ( ma a bordo non dovevano esserci anche militari italiani?) stanno chiudendo la via di fuga ai potenziali richiedenti asilo, ma stanno anche tagliando le possibilità di pesca e dunque di sopravvivenza dell’intera marineria di Mazara del Vallo, alla quale partecipano, tra gli altri, numerosi lavoratori tunisini. I militari libici si sono permessi una facile ironia, ricordando alcuni mesi fa agli ultimi pescatori mazaresi vittima di un sequestro, bloccati anche durante il viaggio di ritorno in Italia, che i mezzi che condurranno in futuro nei porti libici le unità da pesca italiane che dovessero essere sorprese a più di 73 miglia a nord del confine libico, saranno proprio le motovedette fornite dall’Italia alla Libia per contrastare l’immigrazione clandestina.

4. I respingimenti “informali” in acque internazionali, come la pratica delle “riammissioni” verso la Grecia, denunciata da tempo alle frontiere portuali dell’Adriatico violano il diritto a entrare o a rimanere ( se a bordo di una nave battente bandiera italiana) nel territorio italiano per il tempo necessario per l’accertamento dell’età, per il tempo necessario per l’esame della domanda di protezione internazionale, per verificare se comunque la persona si trova in una situazione di inespellibilità, alla quale va equiparato il divieto di respingimento (refoulement).

Le pratiche di respingimento da parte della polizia marittima, a terra come a mare, al di là della ambigua formulazione dell’art. 10 del T.U. sull’immigrazione del 1998, violano diverse disposizioni della Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia del 1989, delle Direttive comunitarie in materia di accoglienza (2003/9/CE), di qualifiche (2004/83/CE) e di procedure di asilo( 2005/85/CE) relative ai richiedenti protezione internazionale, il Regolamento delle frontiere Schengen del 2006, oltre che le disposizioni interne di attuazione. Presto anche la Commissione Europea potrebbe aprire una procedura di infrazione a carico dell’Italia per la violazione reiterata del diritto comunitario in materia di asilo, protezione internazionale e controllo delle frontiere.

Ma le condanne più gravi arriveranno ( e in qualche caso sono già arrivate) dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. E’ bene che i nostri governanti sappiano che per quanto siano lunghi i tempi per la conclusione dei processi, queste condanne stabiliranno la responsabilità di mandanti politici ed esecutori militari, malgrado i tentativi dilatori posti in essere per eludere le richieste di informazione da parte della Corte. Potranno fare sparire i corpi delle vittime degli abusi, ma questo non potrà che aggravare le responsabilità di chi ritiene di potere violare impunemente la Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo.

Ma quello che è più grave, e che non si era mai verificato in precedenza, è che oggi viene messa in discussione dal governo italiano, oltre alla giurisdizione della CEDU, anche la stessa possibilità effettiva di presentare un ricorso individuale alla Corte di Strasburgo. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, seconda Sezione, il 18 novembre 2008, ai sensi dell’articolo 39 CEDU ha ravvisato la possibile violazione dell’art. 34 CEDU intimando allo Stato italiano di sospendere l’espulsione di un cittadino afghano verso la Grecia fino al 10 dicembre 2008 (CEDH-LF2.2R, EDA/cbo, Requete n°55240/08, M. c. Italie). Lo stesso diritto di ricorso effettivo viene negato ai migranti bloccati nelle acque del canale di Sicilia e riconsegnati alle motovedette libiche, esattamente come ai migranti afghani ed irakeni respinti “senza formalità” dalle frontiere portuali dell’Adriatico verso la Grecia.

Nelle concrete modalità di esecuzione delle misure di “riammissione” in Grecia ed in Libia si riscontra infine una violazione del divieto di espulsioni collettive (nelle quali vanno compresi anche i casi di respingimento collettivo) sancito dall’art. 4 del Protocollo 4 allegato alla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo. Lo stesso divieto è ribadito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Certo, si tratta di casi nei quali non è facile fornire prove documentali, e appunto per questo i respingimenti vengono effettuati “senza formalità”, e in ogni caso non è agevole trovare nei paesi di transito come la Libia o la Tunisia avvocati indipendenti, in modo da far sottoscrivere una procura per una denuncia o per un ricorso. Per questo sollecitiamo la responsabilità di tutte le agenzie internazionali preposte alla prevenzione, oltre che alla sanzione, delle violazioni dei diritti fondamentali della persona, che operano nei paesi di transito.

Di fronte alla gravità ed al ripetersi delle procedure di riammissione verso la Libia e la Grecia occorre individuare forme di rappresentanza collettiva delle tante vittime delle procedure amministrative di immediato respingimento verso i porti di provenienza che sarebbero eseguite ai sensi dell’art. 10 comma 1 del Testo Unico sull’immigrazione del 1998, una norma che dovrebbe essere spazzata via da un rigoroso controllo di costituzionalità.

Vanno costruiti rapporti con le famiglie delle vittime dell’immigrazione clandestina, anche al fine di garantire la prosecuzione dei processi davanti alle corti internazionali, una volta che i migranti, magari dopo avere fatto ricorso, vengano fatti sparire” dalle autorità di polizia, per cancellare gli abusi che sono stati commessi e sui quali stanno indagando i giudici internazionali.
Per queste ragioni spetta alle organizzazioni non governative ed alle reti nazionali dei migranti presenti in Italia, creare una rete diffusa sul territorio nazionale, ed anche nei paesi di origine e di transito, in modo da garantire un monitoraggio continuo, raccogliere la documentazione, diffondere le informazioni su quanto accade e ricorrere a tutti gli strumenti legali interni ed internazionali per denunciare quanto sta avvenendo alle frontiere marittime dell’Adriatico e nel Canale di Sicilia.

Questo articolo è stato scritto da : Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo pubblicato sul sito www.meltingpot.org


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sabato 13 giugno 2009

Agrigento: Agenti in borghese aggrediscono extracomunitari, poco prima che iniziasse la manifestazione contro i respingimenti

Vi riporto quanto è accaduto ad Agrigento durante la manifestazione di adesione alla campagna nazionale, indetta da Fortress Europe, contro i respingimenti dei clandestini attuata dal governo italiano.
L' articolo è di Vincenzo Campo ,le fotografie sono state scattate da Tano Siracusa.

“Tutto pare assolutamente normale; è un pomeriggio di giugno, già estate, con le sue consuete lentezze e sonnolenze.

Armeggiamo intorno a una pedana e guardiamo il tecnico che combatte con cavi, fili, spine, prese, amplificatori… quello che servirà, fra poco, alla nostra manifestazione contro la cosiddetta linea dura del governo nei confronti degli immigrati, contro i respingimenti in mare, contro la consegna degli sventurati che tentano di venire qui al colonnello Gheddafi e ai suoi torturatori.

Poco più avanti i “vucumprà” con la loro mercanzia fatta delle solite cianfrusaglie: cinture , borsette, occhiali da sole, braccialetti, occhiali per presbiti… loro sono là, come sempre, davanti alle loro cose, pronti a mercanteggiare per spuntare il prezzo migliore intanto che chiacchierano e ridono.

Tutto secondo la norma
Poi d’un tratto la normalità finisce e la flemma delle inconsapevoli comparse d’uno spettacolo assolutamente inatteso e decisamente fuori luogo s’interrompe e si fa attenzione stupita a quello che accade; tutto s’arresta e gli sguardi si rivolgono verso i neri rivenditori di cianfrusaglie, mentre il normale brusio delle chiacchiere di ognuno vie sopraffatto dal rumore d’un’azione repentina e inattesa.
Lo spettacolo comincia d’improvviso e ci mostra un’aggressione in piena regola su quegli sventurati colpevoli di vendere cianfrusaglie, ma senza la licenza e forse pure senza il permesso di soggiorno… delinquenti neri, extracomunitari, da respingere subito, senza por tempo in mezzo, proprio in quel momento,giusto mezz'ora prima che cominciasse la manifestazione contro i respingimenti.



Lo spettacolo è magnifico e d’un realismo incredibile: è la forza dell’autorità che si scatena sugli ultimi: una decina di uomini all’apparenza normali, bianchi, vestiti come noi, con gli abiti informali d’un ordinario pomeriggio d’estate, si avventano sui neri… non si capisce che accade…. La gente è preoccupata e sbigottita… i neri scappano, tentano di scappare, lasciando sul marciapiede la loro impresa abusiva, la loro piccola-grande ricchezza fatta di quelle quattro cose.
Ne acchiappano uno, forse altri due o tre più avanti ma non si vede, lo tengono in due e se lo portano…. a terra un paio di sandali lasciati da qualcuno in fuga, e
padre Gaspare, il missionario comboniano principale organizzatore della manifestazione che da lì a poco si svolgerà, che protesta a voce alta, grida il suo sdegno a quelli che sapremo dopo essere carabinieri, giustamente indignato e forse anche forte dell’abito che porta:
“Se arrestate lui dovete arrestare anche me
", urla.



Ci spostiamo dall’altra parte dei giardini, al comando dei carabinieri, e padre Gaspare entra e parla coi militari; Tano Siracusa viene identificato e invitato a rimanere lì, ma s’allontana spiegando che se non è sottoposto a un fermo può andare dove vuole.

Arrivano notizie contraddittorie: dicono, i militari, di non aver saputo della manifestazione, pur comunicata al questore e perciò consentita, dicono di avere eseguito non meglio precisati ordini superiori, di aver coordinato l’operazione con la polizia di stato, che la loro azione è necessitata dalle continue denunce dei commercianti regolari contro gli abusivi neri e forse clandestini…

Ce ne andiamo e torniamo alla nostra manifestazione; naturalmente, a parte quella decina di extracomunitari che è venuta lì con noi, non se ne vede uno di quelli che abitualmente stanno lì a Porta di ponte, a discorrere o a vendere braccialetti di perline infilate; naturalmente la paura ha avuto la meglio sul diritto e la ragione; ancora una volta, naturalmente, al presunto pericolo nero, all’incalcolabile danno che l’abusivismo del commercio di cianfrusaglie fa a quello regolare dei bei negozi della via Atenea, abbiamo saputo contrapporre la forza dell’autorità, i muscoli della legalità formale.

Quella stessa che non sappiamo o non vogliamo esercitare nei confronti degli autori palesi delle grandi frodi, dei brogli, degli scandali nazionali.

Giustizia è stata fatta: quel disgraziato è rimasto in caserma e ha lasciato sulla strada la ricchezza del suo piccolo commercio; sarà rilasciato e se non è regolare rimpatriato e il segnale è stato dato a chi ha la pretesa di solidarizzare coi neri, cogli arabi, coi berberi, coi magrebini irregolari e abusivi”.

(Vincenzo Campo)





Vi ricordo che dal 10 al 20 giugno : si svolgeranno 93 eventi in 57 città italiane, per dire no ai respingimenti.


LA LISTA COMPLETA DEGLI EVENTI IN PROGRAMMA




venerdì 12 giugno 2009

L’accoppiata Berlusconi-Gheddafi.

La visita di Gheddafi in Italia sta offrendo l’occasione di vedere in faccia gli autori diretti o indiretti delle violenze e degli abusi che i migranti subiscono in Libia. Le agghiaccianti immagini televisive, che vanno ben oltre il ridicolo dei protocolli ufficiali, mandano in onda gli incontri del dittatore libico accolto con abbracci e sorrisi dal governo




Con le seguenti parole il disumano Gheddafi, non ha tradito le aspettative ed ha palesemente ricordato quale sia la sua posizione in materia di asilo politico:"l’asilo politico? Una menzogna diffusa. Chiedono asilo politico? GLi africani non ne hanno bisogno, è gente che vive nella foresta o nel deserto. E poi ancora: Se dovessimo ascoltare Amnesty International tutti potrebbero muoversi e vi trovereste tutta l’Africa in Europa.

Detto, fatto!

Il 6 Maggio per la prima volta tre navi italiane hanno riportato in Libia dei migranti soccorsi in mare.

Ecco il racconto, dei due giornalisti di Paris Match che erano a bordo del guardiacoste Bovienzo:

La scaletta! Per lasciare il gommone in panne bisogna afferrare questo pezzo di ferraglia attaccato alla fiancata della nave. Intanto il gommone continua a sgonfiarsi e a ondeggiare, sbattendo contro l’imbarcazione della guardia di finanza. Questa scaletta è la strada più breve tra l’Africa e l’Europa, tra la miseria e la speranza. In fondo al gommone alla deriva c’è una ragazza stremata e immobile, di cui si vedono solo gli occhi spalancati per il terrore. Gli spintoni per salire sulla scala, la lotta per uscire dal relitto: quest’abbordaggio della disperazione ha qualcosa di dantesco. È terribile anche per i marinai del Bovienzo, che non sono certo al primo salvataggio in mare. “Aspettate, uno alla volta!”, grida uno di loro. Gli ordini del comandante Christian Acero non ottengono nulla di più. Ma che disciplina ci si può aspettare dai sopravvissuti? La sua voce roca è coperta dal rumore di un elicottero che sorvola la zona. Acero è esasperato: “Ma quando se ne va?”. Un membro dell’equipaggio picchia con il manganello sulle sbarre della scaletta per far capire ai naufraghi che non devono attaccarsi tutti insieme. Ma loro se ne fregano: è il mare che fa paura, non gli uomini e i manganelli. Cercano di salire come meglio possono, gli uni sugli altri, rischiando di cadere in mare e affogare. L’angoscia si impadronisce dell’equipaggio del Bovenzio. I primi naufraghi che arrivano a bordo si mettono a sedere contro il telo del pozzetto cercando di stendere le gambe. Hanno il fiato corto e le braccia che tremano. Saud Adill rimane un momento immobile, poi crolla. Si avvicina piangendo ad Amal, un suo amico, anche lui scampato al naufragio. Amal lo abbraccia e lo stringe a sé. Adill ci guarda, le sue labbra tremano. “Acqua”, chiede Amal. Gli diamo una bottiglia. Con delicatezza bagna Adill, poi la bottiglia passa di mano in mano. In pochi secondi è vuota. Intanto i naufraghi continuano a invadere il ponte. Quanti sono? Dieci, venti, trenta. E continuano a salire. I marinai ordinano agli altri di stringersi per fare posto. Alla fine sono 68. A poppa ci sono altre dodici donne.

Solo stracci senza valore
Per giorni queste ottanta persone sono andate alla deriva su un gommone che i marinai del Bovenzio lasciano affondare senza cercare di recuperare gli oggetti che sono a bordo. Del resto, non c’è niente di valore: qualche straccio, delle magliette sporche, una bottiglia vuota. Non è rimasto nulla: né acqua né cibo né benzina. Per arrivare in Sicilia mancano più di cento miglia marine: non ce l’avrebbero mai fatta. “Gli abbiamo salvato la vita”, mormora un membro dell’equipaggio. Il comandante rimane in silenzio, si accende una sigaretta e torna al timone.
Sul ponte, Amal aiuta Adill a riprendersi. Adill è nato nel 1983. “Il 1 Aprile” racconta. “So disegnare. Voglio lavorare, andare a scuola in un paese europeo. Farò tutto quello che volete”. Gesticola, Amal lo calma. Amal è ghanese e ha 26 anni. Ha vissuto e lavorato in Libia per quattro anni, cercando di guadagnare i 1.500 dollari necessari per la traversata. Vuole raggiungere il fratello in Spagna. Non gli va di parlare del viaggio e bisogna strappargli le parole di bocca. È stato uno sconosciuto incontrato al mercato di Tripoli a offrirgli la possibilità di imbarcarsi. Così, una notte è salito su un pickup con altri africani. Lo hanno bendato, portato in una casa e gli hanno preso i soldi. Poi la spiaggia, la partenza e il gommone. Quanto tempo avete passato in mare? Amal non lo sa. “Tre notti, poi la benzina è finita” dice uno dei suoi compagni. Si chiama Franck, ha gli occhi arrossati, le labbra gonfie e screpolate. Come gli altri, è confuso. Qualcuno afferma che il viaggio è durato cinque giorni. Impossibile, risponde un marinaio: “Dopo cinque giorni in queste condizioni non avrebbero la forza di parlare.” Nessuno sembra in grado si stabilire con esattezza il tempo passato in mare. Hanno tutti una storia già pronta – imparata per bene durante la traversata – da raccontare alla polizia e ai giudici: è la storia incredibile di un lungo viaggio e della loro guida che è caduta in mare. Me la racconta Gift, una giovane nigeriana che indossa un paio di jeans scoloriti e ha i capelli arruffati. Mi chiede cosa le succederà. Le racconto quello che ho già visto in passato, quello che sono convinto le succederà. Stiamo navigando verso il molo di Porto Nuovo, a Lampedusa, dove la Croce Rossa, la Caritas e l’Acnur si occuperanno di loro: gli daranno tè e biscotti, coperte e vestiti. E poi assistenza legale, cure e anche una carta telefonica. Gli africani sanno che chi arriva a Lampedusa è trattato come un naufrago, non come un clandestino. Anche se sull’isola non tutti sono d’accordo: gli abitanti non amano vedersi sfilare davanti la miseria del mondo e non vogliono che le loro coste si trasformino in un cimitero a cielo aperto. Nessuno, però, rifiuta un minimo di umanità, di solidarietà, di carità.
Così dico ai naufraghi: “Non vi preoccupate”.
Poi, però, comincio io a preoccuparmi: quando torno in cabina, scopro che la destinazione è cambiata. Lampedusa è a un’ora di navigazione in direzione ovest. Il guardiacoste della guardia di finanza invece sta andando a sud. Cala la notte. I profughi stremati hanno freddo, fame e sonno. “Ieri ha piovuto”, racconta Amal, “siamo ancora tutti bagnati”. Aspira il fumo dalla sigaretta che qualcuno gli ha dato e la passa ai compagni. Un uomo esile chiede da mangiare, ma non avrà nulla. Un altro, che indossa la maglia di Francesco Totti della Roma, chiede dei vestiti asciutti, ma non ce ne sono. Non ci sono neanche le coperte. Sul ponte si vedono le sagome di uomini e donne seduti o sdraiati, avvolti in lembi di stroffa sporca. S’intravedono dei piedi. L’odore è forte, nauseante. Meglio non pensare alle condizioni igieniche in cui queste persone hanno trascorso gli ultimi giorni. Qualcuno si alza per andare a vomitare, accompagnato da un membro dell’equipaggio. Intanto un marinaio napoletano distribuisce alle donne bottiglie d’acqua, biscotti al cioccolato e ovatta per le orecchie. Il gruppo delle donne è seduto sopra i motori: fa meno freddo che a prua ma c’è un rumore insopportabile.
Gift è accucciata, ha lo sguardo perso nel vuoto. Sulla testa porta uno scialle e tiene le mani nelle tasche della giacca. Ha mal di denti e non riesce a mangiare. Per un momento si rianima, guarda il cielo, la luna a babordo e la stella polare che brilla a prua. “Where are we going?”chiede. Nessuno le risponde. È mezzanotte. Incrociamo due barche della guardia costiera. Anche loro trasportano dei clandestini. Per radio il comandante del Bovienzo chiede delle coperte isotermiche e l’aiuto di un medico. Qualche minuto dopo un dottore sale a bordo, senza coperte però. Basso e corrucciato, il dottor Arturo indossa l’uniforme rossa del Corpo italiano di soccorso dell’ordine di Malta. Ha con sé una valigetta piena di medicine e parla solo italiano. Io ed Enrico, il fotografo, facciamo da interpreti.
Due malati si sono rifugiati in un gommone di salvataggio del Bovienzo. “Fuel burn”, dice uno di loro indicandosi i genitali. “Ho i guanti sporchi”, risponde il medico. Mi chiede di tirare fuori dalla borsa uno spray e lo spruzza sui genitali del paziente, che fa una smorfia prima di riabbottonarsi i jeans. Gli altri immigrati capiscono che il medicinale allevia il dolore. Sul fondo del gommone si era sparsa della benzina e loro sono rimasti per ore a mollo nel carburante. Tutti hanno delle bruciature sul sedere. Si alzano uno dopo l’altro, abbassano i pantaloni. Quelli che ne hanno ancora la forza, ridono. Un senegalese che indossa un giubbotto con la chiusura lampo spiega in francese che ha la nausea e vomita in continuazione. “Vediamo un po’” risponde il medico. Qualcuno ha mal di testa. “Da quanto tempo?” “Due mesi” “Non posso farci nulla. Sono qui solo per le urgenze.” Un altro apre un vecchio sacco di plastica e mostra due fialette vuote. “Le mie medicine” dice. “Sono asmatico e nel mio paese questa medicina non si trova più. Mio padre mi ha detto di andare…” “Di cosa soffre esattamente?”, lo interrompe il medico prima di girarsi. “Andiamo a vedere le donne”. Una sta male: si tocca i fianchi e il petto facendo dello smorfie. Non parla inglese e Gift non ha più la forza per tradurre. Il dottore l’ausculta, sospira e passa alla vicina, che abbassa i pantaloni. “Fuel burn”. Gift parla del suo mal di denti. “Vediamo dopo”, dice il medico. Dopo cosa? Non risponde. Gift piange. Il medico finisce il suo giro: “Non posso occuparmi di tutti!”. Si volta verso di me e aggiunge: “È sempre così, si lamentano delle irritazioni dovute all’acqua di mare. Ma questi sembrano in buona salute.” Gli restituisco la valigetta, siringhe e medicinali che non sono serviti a nulla. Almeno il dottore ha portato dei secchi della spazzatura. I marinai li distribuiscono e gli immigati li indossano come giubotti. A poppa le donne, rannicchiate le une contro le altre, li usano come coperte.

Inutili preghiere
Alle sette del mattino il sole è ormai alto. La nave continua a fare rotta verso sud. I naufraghi tremano dal freddo. Alcuni sono immobili, rigidi come manichini. Poi un uomo si alza e grida: “Guardate che bella giornata! Pregate il Signore, è un giorno felice, il Signore è buono”. In mano ha una Bibbia. Tre suoi amici si mettono a cantare. Voci basse e una melodia lenta. Un coro di schiavi. L’uomo con la Bibbia grida: “Noi amiamo Gesù e io sono un vincente!”. Dove trovi l’energia, dopo tre giorni in nave, è un mistero. La maggior parte dei passeggeri è cristiana e porta una croce al collo. “Pray the Lord! Alleluia! Voglio vedere delle persone felici” continua il prete, che ringrazia Dio per averli salvati. I passeggeri pregano: “Gesù è mio padre e non mi abbandonerà mai!”.
Ma molti di loro cominciano ad avere dei dubbi. “Dove stiamo andando?” chiedono. Sono passate dodici ore dal salvataggio e la terra all’orizzonte non è Lampedusa. Si scorgono gli edifici del lungomare di Tripoli. Non è la democrazia, la carità, l’umanità. È la Libia. A bordo cala il silenzio. La preoccupazione aumenta, ma nessuno dei clandestini riconosce Tripoli dal mare: quando sono partiti non l’hanno vista. Anche i marinai sono preoccupati. Come reagiranno gli immigrati quando si accorgeranno di non essere in Italia? All’improvviso un passeggero indica il recinto del vecchio mercato, dove si riparano gli africani in partenza per l’Europa.
Il Bovienzo entra in porto, in un molo isolato, nascosto da alcune grandi navi mercantili. A terra c’è un funzionario libico con i baffetti e un vestito bianco a dirigere le operazioni. Amal si gira verso di noi: “Ma siamo a Tripoli! Perché ci trattano così?”. Qualcuno mi prende per la mano. “Mi servono dei soldi” dice un uomo con la giacca di jeans guardandomi negli occhi. Con pochi euro riuscirebbe a evitare la polizia libica. La passerella è stata calata. Un camion bianco si ferma sul molo. Ha due finestrini minuscoli con le grate e, all’interno, due panche di ferro. All’improvviso comincia la rivolta. Durerà un’ora: un’ora di urla, di pianti e di lotte. I clandestini che scendono a terra spontaneamente sono pochi. Bisogna andarli a prendere uno per uno. Tirarli, spingerli, minacciarli. Ci vogliono quattro o addirittura sei persone per sollevarli e portarli a terra. Un uomo prende una corda e mima la propria impiccagione. Un italiano lo minaccia col manganello. In un angolo c’è una persona svenuta. “Portate dell’acqua!” grida qualcuno. Il medico non ha tempo per visitarlo. Il malato è portato sul molo.
I marinai italiani non ne possono più. Uno di loro mormora: “Non è possibile”. Ma a poco a poco la barca si svuota. Adill e Amal se ne vanno senza protestare. Scrivono il loro nome su un foglio e salgono sul furgone. Ci rimarrano per ore, senza bere né mangiare. A salvarli forse è stato Dio, non certo gli europei. Alle nove e mezzo sulla barca della guardia di finanza rimangono solo quattro persone. Gli italiani non sanno come calmarli.
L’uomo che gridava “Alleluia”durante la messa, adesso ulra di rabbia. Si è tolto la camicia arancione, la maglia e le mutande. È nudo e mostra le ferite che gli hanno inflitto i poliziotti libici, i suoi aguzzini. “Libia is not our country, me go Nigeria”, grida un altro uomo. Loro due esguono una specie di danza macabra sul ponte, mentre gli altri mostrano il petto ai mitra libici. “Shoot us!” gridano. Poi crollano e si mettono a piangere. Il funzionario libico sorride: “Gheddafi ama gli africani”. L’uomo nudo si rende conto di aver perso. È solo e nudo, davanti a dieci italiani che non sanno cosa fare e a una trentina di militari e poliziotti libici impassibili. Si infila le mutande e scende dalla passerella. Anche lui scrive il suo nome su un foglio e sale sul camion.
Gli ottanta naufraghi sono sbarcati. Sono i primi “beneficiari” della nuova politica contro l’immigrazione illegale adottata dal governo Berlusconi in collaborazione con la Libia. Il Bovienzo riprende il mare verso Lampedusa. “Brutto lavoro” dice un membro dell’equipaggio che era rimasto in silenzio. Sì, sono proprio costretti a fare un brutto lavoro.

Visto che l’asilo è una menzogna allora le torture, la carcerazione, le violenze, i traffici organizzati dalla Polizia libica, gli spari sulle barche in partenza ed i respingimenti illegali dell’Italia, sarebbero legittimi, sempre secondo l’accoppiata Berlusconi-Gheddafi.
I "respingimenti", la cattiveria promossa a metodo di governo


FONTE: Meltingpot.org
La vignetta è di: bandanas

venerdì 8 maggio 2009

"Li avete mandati al massacro, in quei lager stupri e torture"

Le lacrime di Hope e Florence per i disperati riportati in Libia: i nostri mesi all’inferno

da Repubblica.it dell’8 maggio 2009

di Francesco Viviano
Il racconto. Tra le reduci del Pinar: meglio morire che tornare lì "Voi italiani siete buoni, come potete fare una cosa del genere?"

"Li hanno mandati al massacro. Li uccideranno, uccideranno anche i loro bambini. Gli italiani non devono permettere tutto questo. In Libia ci hanno torturate, picchiate, stuprate, trattate come schiave per mesi. Meglio finire in fondo al mare. Morire nel deserto. Ma in Libia no". Hanno le lacrime agli occhi le donne nigeriane, etiopi, somale, le "fortunate" che sono arrivate a Lampedusa nelle settimane scorse e quelle reduci dal mercantile turco Pinar. Hanno saputo che oltre 200 disgraziati come loro sono stati raccolti in mare dalle motovedette italiane e rispediti "nell’inferno libico", dove sono sbarcati ieri mattina. Tra di loro anche 41 donne. Alcuni hanno gravi ustioni, altri sintomi di disidratazione. Ma la malattia più grave, è quella di essere stati riportati in Libia. Da dove "erano fuggite dopo essere state violentati e torturati. Non solo le donne, ma anche gli uomini".

I visi di chi invece si è salvato, ed è a Lampedusa raccontano una tragedia universale. La raccontano le ferite che hanno sul corpo, le tracce sigarette spente sulle braccia o sulla faccia dai trafficanti di essere umani. Storie terribili che non dimenticheranno mai. Come quella che racconta Florence, nigeriana, arrivata a Lampedusa qualche mese fa con una bambina di pochissimi giorni. L’ha battezzata nella chiesa di Lampedusa e l’ha chiamata "Sharon", ma quel giorno i suoi occhi, nerissimi, e splendenti come due cocci di ossidiana, erano tristi. Quella bambina non aveva un padre e non l’avrà mai.

"Mi hanno violentata ripetutamente in tre o quattro, anche se ero sfinita e gridavo pietà loro continuavano e sono rimasta incinta. Non so chi sia il padre di Sharon, voglio soltanto dimenticare e chiedo a Dio di farla vivere in pace". Accanto a Florence, c’è una ragazza somala. Anche lei ha subito le pene dell’inferno. "Quando ho lasciato il mio villaggio ho impiegato quattro mesi per arrivare al confine libico, e lì ci hanno vendute ai trafficanti e ai poliziotti libici. Ci hanno messo dentro dei container, la sera venivano a prenderci, una ad una e ci violentavano. Non potevamo fare nulla, soltanto pregare perché quell’incubo finisse". Raccontano il loro peregrinare nel deserto in balia di poliziotti e trafficanti. "Ci chiedevano sempre denaro, ma non avevamo più nulla. Ma loro continuavano, ci tenevano legate per giorni e giorni, sperando di ottenere altro denaro".

Il racconto s’interrompe spesso, le donne piangono ricordando quei giorni, quei mesi, dentro i capannoni nel deserto. Vicino alle spiagge nella speranza che un giorno o l’altro potessero partire. E ricordano un loro cugino, un ragazzo di 17 anni, che è diventato matto per le sevizie che ha subito e per i colpi di bastone che i poliziotti libici gli avevano sferrato sulla testa. "È ancora lì, in Libia, è diventato pazzo. Lo trattano come uno schiavo, gli fanno fare i lavori più umilianti. Gira per le strade come un fantasma. La sua colpa era quella di essere nero, di chiamarsi Abramo e di essere "israelita". Lo hanno picchiato a sangue sulla testa, lo hanno anche stuprato. Quel ragazzo non ha più vita, gli hanno tolto anche l’anima. Preghiamo per lui. Non perché viva, ma perché muoia presto, perché, finalmente, possa trovare la pace".

Le settimane, i mesi, trascorsi nelle "prigioni" libiche allestite vicino alla costa di Zuwara, non le dimenticheranno mai. "Molte di noi rimanevano incinte, ma anche in quelle condizioni ci violentavamo, non ci davano pace. Molti hanno tentato di suicidarsi, aspettavano la notte per non farsi vedere, poi prendevano una corda, un lenzuolo, qualunque cosa per potersi impiccare. Non so se era meglio essere vivi o morti. Adesso che siamo in Italia siamo più tranquille, ma non posso non stare male pensando che molte altre donne e uomini nelle nostre stesse condizioni siano state salvate in mare e poi rispedite in quell’inferno, non è giusto, non è umano, non si può dormire pensando ad una cosa del genere. Perché lo avete fatto?".

"Noi eravamo sole, ma c’erano anche coppie. Spesso gli uomini morivano per le sevizie e le torture che subivano. Le loro mogli imploravano di essere uccise con loro. La rabbia, il dolore, l’impotenza, cambiavano i loro volti, i loro occhi, diventavano esseri senza anima e senza corpo. Aiutateci, aiutateli. Voi italiani non siete cattivi. Non possiamo rischiare di morire nel deserto, in mare, per poi essere rispediti come carne da macello a subire quello che cerchiamo inutilmente di dimenticare". Hope, 22 anni, nigeriana è una delle sopravvissute ad una terribile traversata. Con lei in barca c’era anche un’amica con il compagno. Viaggiavano insieme ai loro due figlioletti. Morirono per gli stenti delle fame e della sete, i corpi buttati in mare. "Come possiamo dimenticare queste cose?". Anche loro erano in Libia, anche loro avevano subito torture e sevizie, non ci davano acqua, non ci davano da mangiare, ci trattavano come animali. Ci avevano rubati tutti i soldi. Per mesi e mesi ci hanno fatto lavorare nelle loro case, nelle loro aziende, come schiavi, per dieci, venti dollari al mese. Ma non dovevamo camminare per strada perché ci trattavano come degli appestati. Schiavi, prigionieri in quei terribili capannoni dove finiranno quelli che l’Italia ha rispedito indietro. Nessuno saprà mai che fine faranno, se riusciranno a sopravvivere oppure no e quelli che sopravviveranno saranno rispediti indietro, in Somalia, in Nigeria, in Sudan, in Etiopia. Se dovesse accadere questo prego Dio che li faccia morire subito".


Questa notte non ho chiuso occhio, ho pensato a tutte quelle persone che manifestavano davanti alla clinica dove era ricoverata Eluana Englaro, sostenendo "La vita a tutti i costi", gli antiabortisti, i comitati per la vita.


Ho pensato a tutti i ferventi cattolici che la sera prima di addormentarsi, ringraziano il loro DIO per ciò che gli ha dato ( che non è certo il Dio della misericordia)


Ho pensato al Papa e alla sua chiesa misericordiosa dei "poveri, degli ultimi, dei siamo tutti fratelli"


Ho pensato a tutte quelle persone che hanno votato questi politici affidando loro il ruolo di "angeli custodi", cosicchè la sera possono dormire sonni tranquilli al riparo dalla minaccia dello straniero.


Ho pensato a tutti i politici (
nessuno escluso) che si trovano seduti sui banchi della maggioranza, che permettono, l'approvazione di leggi inique, scandalose, inumane, razziste, assassine da dittature del terzo mondo.

Ho pensato....VI DISPREZZO CON TUTTE LE MIE FORZE. FATE SCHIFO TUTTI!!!!!!

Cosa accadrà ai 227 emigranti respinti a Tripoli?

Né a Malta, né a Lampedusa. Sono stati riportati in Libia i 227 emigranti e rifugiati – tra cui 40 donne - soccorsi a circa 35 miglia a sud est di Lampedusa dalle autorità italiane.La tragedia di questi migranti abbandonati per un giorno in mare aperto senza ricevere soccorso non è ancora finita

«Vorrei confermare una notizia che è apparsa oggi e che è davvero molto importante perché rappresenta una svolta nel contrasto all'immigrazione clandestina: per la prima volta nella storia siamo riusciti a rimandare direttamente in Libia i clandestini che abbiamo trovato ieri in mare su tre barconi. Non è mai successo. Fino ad ora dovevamo prenderli, identificarli e rimandarli nelle nazioni di origine. Per la prima volta la Libia ha accettato di prendere cittadini extracomunitari che non sono libici, ma che sono partiti dalle coste libiche. Proprio in questi minuti le nostre motovedette stanno attraccando nei porti libici, restituendo alla Libia 227 cittadini extracomunitari clandestini che sono partiti dai porti libici. Ci abbiamo lavorato per un anno intero e mi pare che questo sia un risultato veramente storico. Mi auguro che prosegua così, naturalmente, questo comportamento leale della Libia nei confronti nostri. Merito degli accordi che abbiamo fatto, merito dell'intensa attivitá diplomatica che abbiamo svolto. Nei prossimi giorni partirá anche quel famoso pattugliamento con le motovedette italiane. Ad un anno esatto dalla nascita del Governo Berlusconi possiamo dire, che su questo tema, la lotta all'immigrazione clandestina, abbiamo realizzato esattamente quello che volevamo realizzare ».
Lo ha affermato il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, ospite della rubrica di Maurizio Belpietro, "Panorama del giorno", su Canale 5.



Maroni ha rivendicato quanto accaduto come “un risultato storico” e annunciato che sarà la prassi della prossima stagione di sbarchi


Nessuno dei passeggeri è stato identificato, nessuno degli eventuali minori non accompagnati è stato tutelato, nessun rifugiato è stato messo nelle condizioni di chiedere asilo politico, e nessun medico ha verificato le condizioni di salute dei naufraghi. Prassi che sulla terra ferma sono obblighi previsti dalla legge. Ma non in mare aperto, fuori dalle frontiere e dallo stato di diritto.
  • Che ne sarà del soccorso in mare, quando la priorità non è più la vita dei naufraghi, ma le trattative sul dove portarli?
Nel Canale di Sicilia sono morte almeno 3.467 persone negli ultimi dieci anni. Ora che la nostra Guardia costiera ha ricevuto l'ordine di non intervenire in alto mare, senza autorizzazione del ministero dell'Interno, previa consultazione-scontro con Malta, rischiano di raddoppiare. Ieri è andata bene perché il mare era calmo. Ma col mare in tempesta e onde altre quattro metri, bastano pochi minuti di ritardo a decidere la morte di centinaia di persone

  • Che cosa succederà ora, ai migranti respinti in Libia?

A seconda delle nazionalità, alcuni saranno rimpatriati in pochi giorni (ad esempio verso Tunisia e Egitto), altri saranno tenuti a marcire nelle carceri libiche per mesi, o per anni.


In che condizioni?




La porta di ferro è chiusa a doppia mandata. Dalla piccola feritoia si affacciano i volti di due ragazzi africani e un di egiziano. L’odore acre che esce dalla cella mi brucia le narici. Chiedo ai tre di spostarsi. La vista si apre su due stanze di tre metri per quattro. Vedo 30 persone. Sul muro hanno scritto Guantanamo. Ma non siamo nella base americana. Siamo a Zlitan, in Libia. E i detenuti non sono presunti terroristi, ma immigrati arrestati a sud di Lampedusa... CONTINUA





Stipati come animali, dentro container di ferro. Così gli immigrati arrestati in Libia vengono smistati nei centri di detenzione nel deserto libico, in attesa di essere deportati. Siamo i primi giornalisti autorizzati a vederli. Le condizioni dei centri sono inumane. I funzionari italiani e europei lo sanno bene, visto che li hanno visitati. Ma si astengono da ogni critica, alla vigilia dell'avvio dei pattugliamenti congiunti...CONTINUA





Di notte, quando cessano il vociare dei prigionieri e gli strilli della polizia, dal cortile del carcere si sente il rumore del mare. Sono le onde del Mediterraneo, che schiumano sulla spiaggia, a un centinaio di metri dal muro di cinta del campo di detenzione. Siamo a Misratah, 210 km a est di Tripoli, in Libia. E i detenuti sono 600 richiedenti asilo politico eritrei, arrestati al largo di Lampedusa o nei quartieri degli immigrati a Tripoli...CONTINUA

Nel 2005 l’Italia era stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo proprio perché aveva effettuato dei respingimenti collettivi dei migranti sbarcati a Lampedusa a partire dall’ottobre del 2004, con voli, prima militari e poi charter, decollati dall’aeroporto di Lampedusa con destinazione Tripoli e Misurata. Un precedente che il ministro dell’interno Maroni sottovaluta, o meglio, sembra ignorare del tutto. Come sembra ignorare che la Libia non ha mai aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951 e dunque non riconosce il diritto di asilo, soprattutto a coloro che non sono di fede musulmana, come somali, eritrei e nigeriani, vittime di ogni tipo di abusi in quel paese.

Per il governo italiano, e per quello maltese, si tratta solo di clandestini, vite a perdere, non importa a nessuno dei due se questi muoino nelle carceri di Gheddafi o nelle acque del Canale di Sicilia.

VERGOGNATEVI, siete DISUMANI!





FONTE: Fortress Europe

La vignetta è di : Roberto Mangosi