Ascoltate Josè Saramago intervistato da Serena Dandini

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domenica 18 aprile 2010

L'attacco di Silvio Berlusconi a Saviano è disgustoso

Octopus vulgaris

18 aprile 2010 - Fabio Magnasciutti

Presidente Silvio Berlusconi, le scrivo dopo che in una conferenza stampa tenuta da lei a Palazzo Chigi sono stato accusato, anzi il mio libro è stato accusato di essere responsabile di "supporto promozionale alle cosche". Non sono accuse nuove. Mi vengono rivolte da anni: si fermi un momento a pensare a cosa le sue parole significano. A quanti cronisti, operatori sociali, a quanti avvocati, giudici, magistrati, a quanti narratori, registi, ma anche a quanti cittadini che da anni, in certe parti d'Italia, trovano la forza di raccontare, di esporsi, di opporsi, pensi a quanti hanno rischiato e stanno tutt'ora rischiando, eppure vengono accusati di essere fiancheggiatori delle organizzazioni criminali per il solo volerne parlare. Perché per lei è meglio non dire.
è meglio la narrativa del silenzio. Del visto e taciuto. Del lasciar fare alle polizie ai tribunali come se le mafie fossero cosa loro. Affari loro. E le mafie vogliono esattamente che i loro affari siano cosa loro, Cosa nostra appunto è un'espressione ancor prima di divenire il nome di un'organizzazione.
Io credo che solo e unicamente la verità serva a dare dignità a un Paese. Il potere mafioso è determinato da chi racconta il crimine o da chi commette il crimine?...........................







Accusare chi racconta il potere della criminalità organizzata di fare cattiva pubblicità al paese non è un modo per migliorare l'immagine italiana quanto piuttosto per isolare chi lo fa. Raccontare è il modo per innescare il cambiamento. Questa è l'unica strada per dimostrare che siamo il paese di Giovanni Falcone, di Don Peppe Diana, e non il paese di Totò Riina e di Schiavone Sandokan. ...........




Pensiero Unico

16 aprile 2010 - Paolo Lombardi

venerdì 7 agosto 2009

No al "mostro sullo Stretto”!

Ascoltate attentamente le parole di Mario Tozzi (geologo)



La costruzione del ponte sullo Stretto, al di là del portato di distruzione di un'area paesaggisticamente straordinaria e di importanza unica dal punto di vista naturalistico e della devastazione cui condurrebbe Messina e Villa San Giovanni a causa di immensi cantieri che interesserebbero queste città per molti anni, non ha alcuna logica dal punto di vista trasportistico ed economico.
Il ponte non serve ai siciliani!

Stanno andando avanti, stanno costruendo il loro “Ponte” fatto di colate di cemento, speculazione, disprezzo per la democrazia.

I cittadini che scenderanno in piazza l’8 agosto a Messina (concentramento l`8 agosto a Piazza Cairoli) non si opporranno semplicemente ad una singola opera, ma ad una concezione sbagliata, ad un modello perverso.
La manifestazione organizzata dalla “Rete No Ponte” è il frutto di un lungo percorso costruito negli anni che ora si arricchisce di una precisa richiesta, ri-orientare la spesa pubblica allontanandola da grandi opere inutili, dannose e non volute verso la riqualificazione del territorio, a cominciare dalla messa in sicurezza anti-sismica, ed infrastrutture di prossimità, come il traghettamento pubblico dello Stretto.

Il movimento Noponte ha sempre espresso la propria contrarietà al Ponte sullo Stretto non soltanto per motivazioni ambientali, economiche, trasportistiche, sociali ma anche sollevando gravi interrogativi su aspetti tecnici legati alla scarsa valutazione sull'alta sismicità dell'area, sulla tenuta delle saldature del Ponte, sui limiti tecnologici attuali per garantire una "luce" così lunga, ecc..
Quegli interrogativi sono oggi confermati ed addirittura aggravati non da un tecnico qualsiasi ma addirittura da quello che fu il presidente del comitato tecnico-scientifico per la verifica della fattibilità del Ponte ovvero il prof. Remo Calzona che dichiara apertamente in una intervista a "La Repubblica" di avere sbagliato le previsioni:
la soluzione del Ponte a campata unica è oggi assai più costosa e per nulla immune da crisi strutturali; il Ponte potrebbe collassare a causa della fatica dei materiali (il cosiddetto fletter,che provocò la caduta del ponte di Tacoma, sopra Los Angeles); è molto probabile che il Ponte subisca il fenomeno del galopping, ovvero una deformazione patita in Danimarca dal nastro d'asfalto del ponte sullo Storebelt, impedendo il passaggio di cose e persone, ovvero il motivo ufficiale per il quale si costruisce un Ponte!!!

Il 22 gennaio 2006 una grande manifestazione partecipata da decine di migliaia di persone (con la partecipazione di una folta delegazione di No Tav) invase le strade di Messina e determinò di fatto uno stop alla costruzione del ponte.
Il Governo Prodi, infatti, inserì l'opera tra quelle non prioritarie. Non cancellò, però, la Stretto di Messina Spa (società incaricata di gestire la costruzione del ponte), né rescisse il contratto firmato da Berlusconi con Impregilo poco prima della scadenza del suo mandato è risultato, così, agevole al nuovo Governo Berlusconi rilanciare l'operazione.

Più volte il governo ha minacciato “l’uso dell’esercito” contro quelle “minoranze” che oseranno opporsi all’avvio dei cantieri ( questo perchè viviamo in uno Stato mooolto democratico...)

Numerosi pullman arriveranno da Palermo, Ragusa, Siracusa, Catania, Reggio Calabria e Cosenza. Inoltre hanno aderito : Rifondazione comunista, Pdci, Plc, Bene Comune, Federazione anarchica siciliana, Unità comunista), sindacati (Rdb, Cub, Cobas, Orsanavigazione), centri sociali (Cartella, Zetalab, ExKarcere, Ask, Auro), reti territoriali (Coordinamento catanese No G8, Cordinamento ibleo per la difesa dalle nocività), comitati cittadini (Giovani e Messina, Energia messinese), un’infinità di piccole e grandi realtà


Lo abbiamo fermato una volta, possiamo rifarlo!



Manifestazione 8 Agosto 2009
Ore 18.00 Piazza Cairoli - MESSINA
Contro il Ponte e per la tutela dei territori


Per saperne di più, acquista il libro : Ponte sullo Stretto e mucche da mungere di Luigi Sturniolo, on line: quì

FONTE: www.retenoponte.it
www.terrelibere.org

venerdì 12 giugno 2009

L’accoppiata Berlusconi-Gheddafi.

La visita di Gheddafi in Italia sta offrendo l’occasione di vedere in faccia gli autori diretti o indiretti delle violenze e degli abusi che i migranti subiscono in Libia. Le agghiaccianti immagini televisive, che vanno ben oltre il ridicolo dei protocolli ufficiali, mandano in onda gli incontri del dittatore libico accolto con abbracci e sorrisi dal governo




Con le seguenti parole il disumano Gheddafi, non ha tradito le aspettative ed ha palesemente ricordato quale sia la sua posizione in materia di asilo politico:"l’asilo politico? Una menzogna diffusa. Chiedono asilo politico? GLi africani non ne hanno bisogno, è gente che vive nella foresta o nel deserto. E poi ancora: Se dovessimo ascoltare Amnesty International tutti potrebbero muoversi e vi trovereste tutta l’Africa in Europa.

Detto, fatto!

Il 6 Maggio per la prima volta tre navi italiane hanno riportato in Libia dei migranti soccorsi in mare.

Ecco il racconto, dei due giornalisti di Paris Match che erano a bordo del guardiacoste Bovienzo:

La scaletta! Per lasciare il gommone in panne bisogna afferrare questo pezzo di ferraglia attaccato alla fiancata della nave. Intanto il gommone continua a sgonfiarsi e a ondeggiare, sbattendo contro l’imbarcazione della guardia di finanza. Questa scaletta è la strada più breve tra l’Africa e l’Europa, tra la miseria e la speranza. In fondo al gommone alla deriva c’è una ragazza stremata e immobile, di cui si vedono solo gli occhi spalancati per il terrore. Gli spintoni per salire sulla scala, la lotta per uscire dal relitto: quest’abbordaggio della disperazione ha qualcosa di dantesco. È terribile anche per i marinai del Bovienzo, che non sono certo al primo salvataggio in mare. “Aspettate, uno alla volta!”, grida uno di loro. Gli ordini del comandante Christian Acero non ottengono nulla di più. Ma che disciplina ci si può aspettare dai sopravvissuti? La sua voce roca è coperta dal rumore di un elicottero che sorvola la zona. Acero è esasperato: “Ma quando se ne va?”. Un membro dell’equipaggio picchia con il manganello sulle sbarre della scaletta per far capire ai naufraghi che non devono attaccarsi tutti insieme. Ma loro se ne fregano: è il mare che fa paura, non gli uomini e i manganelli. Cercano di salire come meglio possono, gli uni sugli altri, rischiando di cadere in mare e affogare. L’angoscia si impadronisce dell’equipaggio del Bovenzio. I primi naufraghi che arrivano a bordo si mettono a sedere contro il telo del pozzetto cercando di stendere le gambe. Hanno il fiato corto e le braccia che tremano. Saud Adill rimane un momento immobile, poi crolla. Si avvicina piangendo ad Amal, un suo amico, anche lui scampato al naufragio. Amal lo abbraccia e lo stringe a sé. Adill ci guarda, le sue labbra tremano. “Acqua”, chiede Amal. Gli diamo una bottiglia. Con delicatezza bagna Adill, poi la bottiglia passa di mano in mano. In pochi secondi è vuota. Intanto i naufraghi continuano a invadere il ponte. Quanti sono? Dieci, venti, trenta. E continuano a salire. I marinai ordinano agli altri di stringersi per fare posto. Alla fine sono 68. A poppa ci sono altre dodici donne.

Solo stracci senza valore
Per giorni queste ottanta persone sono andate alla deriva su un gommone che i marinai del Bovenzio lasciano affondare senza cercare di recuperare gli oggetti che sono a bordo. Del resto, non c’è niente di valore: qualche straccio, delle magliette sporche, una bottiglia vuota. Non è rimasto nulla: né acqua né cibo né benzina. Per arrivare in Sicilia mancano più di cento miglia marine: non ce l’avrebbero mai fatta. “Gli abbiamo salvato la vita”, mormora un membro dell’equipaggio. Il comandante rimane in silenzio, si accende una sigaretta e torna al timone.
Sul ponte, Amal aiuta Adill a riprendersi. Adill è nato nel 1983. “Il 1 Aprile” racconta. “So disegnare. Voglio lavorare, andare a scuola in un paese europeo. Farò tutto quello che volete”. Gesticola, Amal lo calma. Amal è ghanese e ha 26 anni. Ha vissuto e lavorato in Libia per quattro anni, cercando di guadagnare i 1.500 dollari necessari per la traversata. Vuole raggiungere il fratello in Spagna. Non gli va di parlare del viaggio e bisogna strappargli le parole di bocca. È stato uno sconosciuto incontrato al mercato di Tripoli a offrirgli la possibilità di imbarcarsi. Così, una notte è salito su un pickup con altri africani. Lo hanno bendato, portato in una casa e gli hanno preso i soldi. Poi la spiaggia, la partenza e il gommone. Quanto tempo avete passato in mare? Amal non lo sa. “Tre notti, poi la benzina è finita” dice uno dei suoi compagni. Si chiama Franck, ha gli occhi arrossati, le labbra gonfie e screpolate. Come gli altri, è confuso. Qualcuno afferma che il viaggio è durato cinque giorni. Impossibile, risponde un marinaio: “Dopo cinque giorni in queste condizioni non avrebbero la forza di parlare.” Nessuno sembra in grado si stabilire con esattezza il tempo passato in mare. Hanno tutti una storia già pronta – imparata per bene durante la traversata – da raccontare alla polizia e ai giudici: è la storia incredibile di un lungo viaggio e della loro guida che è caduta in mare. Me la racconta Gift, una giovane nigeriana che indossa un paio di jeans scoloriti e ha i capelli arruffati. Mi chiede cosa le succederà. Le racconto quello che ho già visto in passato, quello che sono convinto le succederà. Stiamo navigando verso il molo di Porto Nuovo, a Lampedusa, dove la Croce Rossa, la Caritas e l’Acnur si occuperanno di loro: gli daranno tè e biscotti, coperte e vestiti. E poi assistenza legale, cure e anche una carta telefonica. Gli africani sanno che chi arriva a Lampedusa è trattato come un naufrago, non come un clandestino. Anche se sull’isola non tutti sono d’accordo: gli abitanti non amano vedersi sfilare davanti la miseria del mondo e non vogliono che le loro coste si trasformino in un cimitero a cielo aperto. Nessuno, però, rifiuta un minimo di umanità, di solidarietà, di carità.
Così dico ai naufraghi: “Non vi preoccupate”.
Poi, però, comincio io a preoccuparmi: quando torno in cabina, scopro che la destinazione è cambiata. Lampedusa è a un’ora di navigazione in direzione ovest. Il guardiacoste della guardia di finanza invece sta andando a sud. Cala la notte. I profughi stremati hanno freddo, fame e sonno. “Ieri ha piovuto”, racconta Amal, “siamo ancora tutti bagnati”. Aspira il fumo dalla sigaretta che qualcuno gli ha dato e la passa ai compagni. Un uomo esile chiede da mangiare, ma non avrà nulla. Un altro, che indossa la maglia di Francesco Totti della Roma, chiede dei vestiti asciutti, ma non ce ne sono. Non ci sono neanche le coperte. Sul ponte si vedono le sagome di uomini e donne seduti o sdraiati, avvolti in lembi di stroffa sporca. S’intravedono dei piedi. L’odore è forte, nauseante. Meglio non pensare alle condizioni igieniche in cui queste persone hanno trascorso gli ultimi giorni. Qualcuno si alza per andare a vomitare, accompagnato da un membro dell’equipaggio. Intanto un marinaio napoletano distribuisce alle donne bottiglie d’acqua, biscotti al cioccolato e ovatta per le orecchie. Il gruppo delle donne è seduto sopra i motori: fa meno freddo che a prua ma c’è un rumore insopportabile.
Gift è accucciata, ha lo sguardo perso nel vuoto. Sulla testa porta uno scialle e tiene le mani nelle tasche della giacca. Ha mal di denti e non riesce a mangiare. Per un momento si rianima, guarda il cielo, la luna a babordo e la stella polare che brilla a prua. “Where are we going?”chiede. Nessuno le risponde. È mezzanotte. Incrociamo due barche della guardia costiera. Anche loro trasportano dei clandestini. Per radio il comandante del Bovienzo chiede delle coperte isotermiche e l’aiuto di un medico. Qualche minuto dopo un dottore sale a bordo, senza coperte però. Basso e corrucciato, il dottor Arturo indossa l’uniforme rossa del Corpo italiano di soccorso dell’ordine di Malta. Ha con sé una valigetta piena di medicine e parla solo italiano. Io ed Enrico, il fotografo, facciamo da interpreti.
Due malati si sono rifugiati in un gommone di salvataggio del Bovienzo. “Fuel burn”, dice uno di loro indicandosi i genitali. “Ho i guanti sporchi”, risponde il medico. Mi chiede di tirare fuori dalla borsa uno spray e lo spruzza sui genitali del paziente, che fa una smorfia prima di riabbottonarsi i jeans. Gli altri immigrati capiscono che il medicinale allevia il dolore. Sul fondo del gommone si era sparsa della benzina e loro sono rimasti per ore a mollo nel carburante. Tutti hanno delle bruciature sul sedere. Si alzano uno dopo l’altro, abbassano i pantaloni. Quelli che ne hanno ancora la forza, ridono. Un senegalese che indossa un giubbotto con la chiusura lampo spiega in francese che ha la nausea e vomita in continuazione. “Vediamo un po’” risponde il medico. Qualcuno ha mal di testa. “Da quanto tempo?” “Due mesi” “Non posso farci nulla. Sono qui solo per le urgenze.” Un altro apre un vecchio sacco di plastica e mostra due fialette vuote. “Le mie medicine” dice. “Sono asmatico e nel mio paese questa medicina non si trova più. Mio padre mi ha detto di andare…” “Di cosa soffre esattamente?”, lo interrompe il medico prima di girarsi. “Andiamo a vedere le donne”. Una sta male: si tocca i fianchi e il petto facendo dello smorfie. Non parla inglese e Gift non ha più la forza per tradurre. Il dottore l’ausculta, sospira e passa alla vicina, che abbassa i pantaloni. “Fuel burn”. Gift parla del suo mal di denti. “Vediamo dopo”, dice il medico. Dopo cosa? Non risponde. Gift piange. Il medico finisce il suo giro: “Non posso occuparmi di tutti!”. Si volta verso di me e aggiunge: “È sempre così, si lamentano delle irritazioni dovute all’acqua di mare. Ma questi sembrano in buona salute.” Gli restituisco la valigetta, siringhe e medicinali che non sono serviti a nulla. Almeno il dottore ha portato dei secchi della spazzatura. I marinai li distribuiscono e gli immigati li indossano come giubotti. A poppa le donne, rannicchiate le une contro le altre, li usano come coperte.

Inutili preghiere
Alle sette del mattino il sole è ormai alto. La nave continua a fare rotta verso sud. I naufraghi tremano dal freddo. Alcuni sono immobili, rigidi come manichini. Poi un uomo si alza e grida: “Guardate che bella giornata! Pregate il Signore, è un giorno felice, il Signore è buono”. In mano ha una Bibbia. Tre suoi amici si mettono a cantare. Voci basse e una melodia lenta. Un coro di schiavi. L’uomo con la Bibbia grida: “Noi amiamo Gesù e io sono un vincente!”. Dove trovi l’energia, dopo tre giorni in nave, è un mistero. La maggior parte dei passeggeri è cristiana e porta una croce al collo. “Pray the Lord! Alleluia! Voglio vedere delle persone felici” continua il prete, che ringrazia Dio per averli salvati. I passeggeri pregano: “Gesù è mio padre e non mi abbandonerà mai!”.
Ma molti di loro cominciano ad avere dei dubbi. “Dove stiamo andando?” chiedono. Sono passate dodici ore dal salvataggio e la terra all’orizzonte non è Lampedusa. Si scorgono gli edifici del lungomare di Tripoli. Non è la democrazia, la carità, l’umanità. È la Libia. A bordo cala il silenzio. La preoccupazione aumenta, ma nessuno dei clandestini riconosce Tripoli dal mare: quando sono partiti non l’hanno vista. Anche i marinai sono preoccupati. Come reagiranno gli immigrati quando si accorgeranno di non essere in Italia? All’improvviso un passeggero indica il recinto del vecchio mercato, dove si riparano gli africani in partenza per l’Europa.
Il Bovienzo entra in porto, in un molo isolato, nascosto da alcune grandi navi mercantili. A terra c’è un funzionario libico con i baffetti e un vestito bianco a dirigere le operazioni. Amal si gira verso di noi: “Ma siamo a Tripoli! Perché ci trattano così?”. Qualcuno mi prende per la mano. “Mi servono dei soldi” dice un uomo con la giacca di jeans guardandomi negli occhi. Con pochi euro riuscirebbe a evitare la polizia libica. La passerella è stata calata. Un camion bianco si ferma sul molo. Ha due finestrini minuscoli con le grate e, all’interno, due panche di ferro. All’improvviso comincia la rivolta. Durerà un’ora: un’ora di urla, di pianti e di lotte. I clandestini che scendono a terra spontaneamente sono pochi. Bisogna andarli a prendere uno per uno. Tirarli, spingerli, minacciarli. Ci vogliono quattro o addirittura sei persone per sollevarli e portarli a terra. Un uomo prende una corda e mima la propria impiccagione. Un italiano lo minaccia col manganello. In un angolo c’è una persona svenuta. “Portate dell’acqua!” grida qualcuno. Il medico non ha tempo per visitarlo. Il malato è portato sul molo.
I marinai italiani non ne possono più. Uno di loro mormora: “Non è possibile”. Ma a poco a poco la barca si svuota. Adill e Amal se ne vanno senza protestare. Scrivono il loro nome su un foglio e salgono sul furgone. Ci rimarrano per ore, senza bere né mangiare. A salvarli forse è stato Dio, non certo gli europei. Alle nove e mezzo sulla barca della guardia di finanza rimangono solo quattro persone. Gli italiani non sanno come calmarli.
L’uomo che gridava “Alleluia”durante la messa, adesso ulra di rabbia. Si è tolto la camicia arancione, la maglia e le mutande. È nudo e mostra le ferite che gli hanno inflitto i poliziotti libici, i suoi aguzzini. “Libia is not our country, me go Nigeria”, grida un altro uomo. Loro due esguono una specie di danza macabra sul ponte, mentre gli altri mostrano il petto ai mitra libici. “Shoot us!” gridano. Poi crollano e si mettono a piangere. Il funzionario libico sorride: “Gheddafi ama gli africani”. L’uomo nudo si rende conto di aver perso. È solo e nudo, davanti a dieci italiani che non sanno cosa fare e a una trentina di militari e poliziotti libici impassibili. Si infila le mutande e scende dalla passerella. Anche lui scrive il suo nome su un foglio e sale sul camion.
Gli ottanta naufraghi sono sbarcati. Sono i primi “beneficiari” della nuova politica contro l’immigrazione illegale adottata dal governo Berlusconi in collaborazione con la Libia. Il Bovienzo riprende il mare verso Lampedusa. “Brutto lavoro” dice un membro dell’equipaggio che era rimasto in silenzio. Sì, sono proprio costretti a fare un brutto lavoro.

Visto che l’asilo è una menzogna allora le torture, la carcerazione, le violenze, i traffici organizzati dalla Polizia libica, gli spari sulle barche in partenza ed i respingimenti illegali dell’Italia, sarebbero legittimi, sempre secondo l’accoppiata Berlusconi-Gheddafi.
I "respingimenti", la cattiveria promossa a metodo di governo


FONTE: Meltingpot.org
La vignetta è di: bandanas

domenica 26 aprile 2009

Esposto di Articolo 21 sul conflitto di interessi

L'associazione Articolo21 ha annunciato la decisione di promuovere una serie di iniziative, in sede internazionale e nazionale, per denunciare l'ulteriore degenerazione del conflitto di interessi in Italia.
La riunione che si è svolta nella casa del proprietario di Mediaset per decidere i futuri assetti della concorrenza, non solo non è stata negata da Silvio Berlusconi, ma anzi è stata apertamente rivendicata, come stanno a testimoniare le dichiarazioni dei protagonisti, le centinaia di lanci d'agenzia, le decine e decine di articoli pubblicati da tutti i quotidiani italiani.

Per queste ragioni Articolo21 ha deciso di aderire all'esposto già presentato al Consiglio d'Europa da Lucio Manisco, da Giuseppe Di Lello e da Alessandro Cislin.

Contestualmente l'associazione, d'intesa con la CGIL ed il Comitato della libertà d'informazione ha annunciato che il prossimo 11 maggio a Roma si svolgerà una grande iniziativa per la difesa dei valori racchiusi nell'Art.21 della Costituzione .
L'iniziativa sarà caratterizzata dalle due relazioni introduttive affidate al presidente Emerito Oscar Luigi Scalfaro e al presidente dei costituzionalisti italiani professor Alessandro Pace.
Il comitato dei giuristi aderenti all'associazione ha infine predisposto un esposto da presentare all'autorità antitrust e all'autorità di garanzia delle telecomunicazioni.

Di seguito, il testo della lettera e vi si chiede di sottoscriverla affinchè questo diventi un vero e proprio esposto collettivo sottoscritto da quanti non intendono rassegnarsi alla sub-cultura della illegalità e della colpevole indifferenza.





All'Autorità garante della concorrenza e del mercato
p.c. All'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni


Da notizie stampa e dalle stesse dichiarazioni pubbliche dell'interessato è emerso u
n intervento diretto del Presidente del Consiglio nel procedimento di nomina dei dirigenti delle testate e delle reti della concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo. Il Presidente del Consiglio tuttavia è proprietario della principale azienda concorrente della RAI e ciò determina una palese situazione di conflitto di interessi rilevante ai sensi degli artt. 3 e 4 della legge n. 215/2004. Tale circostanza, fermi restando ulteriori profili di responsabilità, deve quindi essere accertata e sanzionata dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato che ha l'obbligo di legge di aprire immediatamente il relativo procedimento. L'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, cui la presente denuncia è inviata per conoscenza, ha d'altra parte il compito di vigilare sulla correttezza e sull'equilibrio dell'informazione radiotelevisiva, compito reso più stringente non solo dall'attuale regime di par condicio ma anche dalla suddetta situazione di conflitto. Ciò premesso, i sottoscritti chiedono all'Autorità garante della concorrenza e del mercato di adottare in ordine a quanto rappresentato tutti gli atti previsti dalla legge n. 215/2004, procedendo con urgenza ai necessari atti di accertamento. Chiedono inoltre, ai fini dell'esercizio dei loro diritti di partecipazione, di essere avvisati dell'avvio del procedimento e di essere sentiti personalmente.


Federico Orlando presidente
Giuseppe Giulietti portavoce
Tommaso Fulfaro segretario


“Per rendere schiavo un popolo prima di ogni altra cosa è necessario addormentarlo” (Jean Paul Marat)

Oggi come mai prima è urgente e necessario impedire che questo sonno divenga irreversibile e coma terminale della democrazia nella Repubblica Italiana.



FIRMA QUI'












La vignetta è di : GAVAVENEZIA

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giovedì 23 aprile 2009

Berlusconi annuncia trionfante che parteciperà alle celebrazioni del 25 aprile

"25 aprile, Berlusconi mira al Quirinale" di Pancho Pardi


Con l'aria da padre della patria che ormai ha assunto in pianta stabile e che ha esibito usando come occasione di fortuna la disgrazia del terremoto (con una cura speciale rivolta a scoraggiare indagini troppo stringenti sulle responsabilità penali), Berlusconi ora annuncia trionfante che parteciperà alle celebrazioni del 25 aprile: non posso lasciarlo alla sinistra.



Alla domanda "perché prima non vi partecipava?" molti ben disposti interpreti delle sue mosse hanno già risposto con la massima franchezza. Prima la festa era troppo rossa; ora che il rosso della politica italiana è un rosa stinto, Berlusconi copre anche quella festa e adotta un atteggiamento confacente alla sua ultima aspirazione: l'ascesa al Quirinale. La diagnosi è realistica e va presa sul serio. Non va considerata una millanteria da parte sua e un desiderio irrealizzabile dei suoi adoratori. Il pericolo c'è e sta crescendo come una valanga inarrestabile.
Con la classe dirigente che ha avuto di fronte come avversaria, Berlusconi è come quel generale fortunato che vinceva le battaglie senza aver bisogno di combatterle. Protetto dalla casta della prima repubblica ha potuto rappresentarsi come campione liberista della concorrenza mentre diventava monopolista. Ineleggibile, ha potuto essere eletto. Incompatibile col potere politico ha potuto prenderselo e tenerselo. Analfabeta costituzionale vagheggia una riforma della Carta a sua immagine e somiglianza per interpretare la democrazia come rapporto plebiscitario e a senso unico tra capo e popolo. Quindi il ruolo di presidente della repubblica a lui piace soprattutto se corredato dai poteri maggiori che la sua idea di riforma costituzionale dovrebbe attribuirgli. Ma ciò non ci deve consolare: anche se arrivasse al Quirinale dotato solo, si fa per dire, dei poteri attuali, il fatto sarebbe di una gravità indicibile e produrrebbe una distorsione irrimediabile della democrazia. Un soggetto che si è tratto da più di un processo per corruzione della magistratura solo in virtù di leggi concepite a questo esclusivo scopo diventerebbe il presidente del consiglio superiore della magistratura. Ma ancora più grave sarebbe vedere alla presidenza della repubblica il proprietario dei principali mezzi di comunicazione privati. E' tutta responsabilità della classe dirigente di centrosinistra non aver capito che era suo dovere primario garantire la più totale separazione tra politica e comunicazione. Non l'ha fatto e ora la resistibile ascesa del soggetto che ha da tempo politica e comunicazione nelle sue mani è a un passo dal trionfo. A questo punto è inutile recriminare. Ma è inutile anche fare appello a chi non ha saputo impedire il disastro. A questo punto bisogna chiedere che la società italiana sappia trovare dentro di sé nuove energie prima di sprofondare nell'ignominia di Mediaset al Quirinale.





APPELLO:

Diciamo NO alla proposta di legge n. 1360.


“Istituzione dell’Ordine del Tricolore e adeguamento dei trattamenti pensionistici di guerra. Presentata il 23 giugno 2008

L’indecente proposta “ha come primo firmatario Lucio Barani del Nuovo Psi (schierato con il centrodestra). Un disegno di legge, il numero 1360, con il quale la maggioranza pretende di istituire l’Ordine del Tricolore, con tanto di assegno vitalizio. Assegnandolo indistintamente sia ai partigiani, sia “ai combattenti che ritennero onorevole la scelta a difesa del regime ferito e languente e aderirono a Salò”. Un testo che l’Anpi bolla come “l’ennesimo tentativo della destra di sovvertire la Storia d’Italia e le radici stesse della Repubblica”.

Rispettiamo tutti i caduti, ma pensiamo che esista una differenza

tra chi ha combattuto per la libertà e la democrazia del nostro Paese

a chi invece ha fatto il gioco del regime nazifascista.

Chiediamo Rispetto per tutte le persone che hanno dato la vita per garantire la nostra libertà.



Firma anche tu




UNA FIRMA PER
LA DEMOCRAZIA

UN FIORE PER LA LIBERTA'




Dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono.


(Italo Calvino
)

La vignetta è di bandanas

venerdì 1 agosto 2008

Ma il Partito Democratico esiste?

Governa regioni, ha centinaia di deputati in parlamento, offre decine di migliaia di strapuntini di potere, di impieghi e impiegucci a uomini, ominicchi e a tanti quaquaraqua (ed equivalenti femminili) ma il Partito Democratico non esiste. Nello specifico mi riferisco al caso drammatico di Eluana Englaro,


sul mantenimento in stato vegetativo del povero corpo della quale la classe politica (per compiacere il Vaticano, ovvio) sta tenendo un comportamento analogo allo squadrismo.
Chi scrive non prende alla leggera il problema, e come per
Piergiorgio Welby, non pensa che ci siano soluzioni facili né ovvie a questioni così drammatiche concernenti l’essenza della nostra modernità.
Resto del tutto sconcertato nell’apprendere la decisione del PD di astenersi nel merito del conflitto creatosi tra Parlamento e Cassazione che è in realtà un conflitto non di attribuzione ma tra chi vuole permettere un scelta (la Cassazione) e chi (il Parlamento) invece vuole -impedendo di scegliere- prolungare indefinitamente l’agonia e compiacere così l’altra sponda del Tevere.
Neanche sottotraccia resta il conflitto tra laici e teocons del PD che la pensano all’opposto su quasi tutto e il prodotto è quest’astensione laddove lo stato di diritto (non la mera laicità) viene difeso solo da Antonio di Pietro e dai radicali.
C’è quasi da gioire che governi Silvio Berlusconi. Un PD incapace di scegliere su qualunque questione etica semplicemente non è abile a governare e si condanna da solo a una novella Conventio ad excludendum.
Ma un partito incapace di scegliere esiste?
(Questo articolo è di Gennaro Carotenuto)