Ascoltate Josè Saramago intervistato da Serena Dandini

martedì 31 marzo 2009

Tragedia davanti alle coste libiche

Ieri, 30 marzo si è forse consumata l’ennesima tragedia dell’immigrazione “clandestina”.


Nello stesso giorno in cui il ministro Maroni annunciava che dal 15 maggio saranno avviati i pattugliamenti congiunti di unità italiane e libiche per impedire ai migranti di raggiungere Lampedusa e le coste meridionali della Sicilia, il Corriere della sera riferisce che un peschereccio su cui erano stipate 257 persone che si dirigevano verso l’Italia sarebbe affondato al largo delle coste libiche: “soltanto 23 persone sono state salvate dalla marina libica”. Secondo l’agenzia egiziana Mena, il naufragio è avvenuto a 30 chilometri dalla costa, poco dopo la partenza dalla località di Sidi Bilal, nei pressi di Tripoli.

Di altre due imbarcazioni partite, secondo le stesse fonti, dalla costa libica, non si sa nulla, ma una nave cisterna italiana avrebbe “ salvato 350 immigrati clandestini che erano a bordo di una imbarcazione che si trovava in difficoltà a largo delle coste della Libia”. Secondo altre fonti libiche i pescherecci dispersi sarebbero addirittura due.
Non si sa verso quale porto farà rotta la nave italiana carica di naufraghi.

Speriamo che sia offerta a tutti coloro che lo chiedano la possibilità di richiedere asilo o protezione internazionale in Italia, e che non si ripeta un altro caso Cap Anamur, la nave tedesca alla quale nel 2004, dopo avere tratto in salvo 37 naufraghi, venne impedito di entrare nelle acque italiane, e che solo dopo due settimane di blocco navale riuscì ad entrare a Porto Empedocle con il conseguente arresto del suo comandante, del secondo e del (allora) responsabile della organizzazione umanitaria Cap Anamur. Il processo è ancora in corso davanti al Tribunale di Agrigento.

Queste tragedie, dalle dimensioni ancora imprevedibili, confermano come le rotte dell’immigrazione clandestina si siano ulteriormente allungate, forse per effetto dei maggiori controlli dei tradizionali punti di partenza dei migranti dalla Libia occidentale, come la città di Zuwara, al confine con la Tunisia. In fondo i libici devono dimostrare all’Italia che fanno la loro parte, per incassare i cospicui finanziamenti previsti dal trattato di amicizia italo-libico firmato lo scorso anno da Berlusconi e Gheddafi. Maggiori controlli, ma non troppo. Una autentica manna per le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di clandestini. Si parte sempre dalla costa libica, ma dai porti più ad oriente, a nord di Tripoli ed i viaggi costano sempre di più. E le imbarcazioni arrivano forse anche dall’Egitto.

Le “carrette del mare” usate dalle organizzazioni dei trafficanti sono adesso più grandi, ma sempre stracolme di persone, e qualunque mutamento improvviso di rotta, o un peggioramento delle condizioni del mare, ne può causare il rovesciamento. Immaginiamoci cosa può significare l’intervento di pattugliatori che dovrebbero sbarrare la strada a queste “carrette del mare” per costringerle a rientrare nei porti di partenza, nell’inferno libico, descritto dalle agghiaccianti testimonianze dei migranti raccolte da Fabrizio Gatti nel 2004 e, come allora, ancora pochi giorni fa.

All’inizio dell’anno Maroni aveva dichiarato che «entro gennaio entrerà in vigore l’accordo con la Libia che prevede il pattugliamento delle coste del paese africano». In questo modo, affermava il ministro, si concluderanno «gli sbarchi prima della stagione turistica e Lampedusa tornerà ad essere conosciuta come una delle più belle isole del Mediterraneo e non come la porta di ingresso dei clandestini in Europa». La stagione turistica è arrivata ed il numero di arrivi di migranti, a Lampedusa e nel sud della Sicilia è ancora cresciuto, malgrado le statistiche di comodo diffuse dal ministero.
Non sappiamo quale sarà adesso l’effetto annuncio dell’ennesimo “avvertimento” di Maroni, che promette per il 15 maggio l’avvio del pattugliamento congiunto delle unità navali italo-libiche al limite delle acque internazionali, e forse anche più vicino alla costa, di fronte ai porti di partenza. Esattamente dove è affondata oggi l’imbarcazione carica di migranti, molti dei quali sono morti o ancora dispersi.

Potrebbe anche darsi che le pattuglie di Frontex, agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne, siano già al lavoro nella stessa zona. Di fronte a questa ennesima tragedia chiediamo di sapere se e dove sono attualmente operanti le motovedette di Frontex dislocate nel Mediterraneo centrale e quale siano le regole d ingaggio decise dall’agenzia, che ne dovrebbe sempre rispondere agli organi dell’Unione Europea, il Consiglio, la Commissione ed il Parlamento, e non continuare invece ad operare come un corpo separato, una sorta di super-polizia internazionale.

La vita umana in mare è comunque un valore assoluto, garantito da tutte le convenzioni internazionali, si tratti di migranti economici o di potenziali richiedenti asilo, o ancora di donne o di minori.

Chiunque brandisce lo spauracchio del “pattugliamento congiunto” per respingere indietro le imbarcazioni cariche di migranti potrà forse guadagnare consensi elettorali, ma si macchia per sempre di una gravissima violazione dei diritti fondamentali delle persone migranti, a partire dal diritto alla vita, una responsabilità che dovrebbe essere sanzionata dai tribunali internazionali. Una volta portate le persone in salvo in un porto sicuro e garantito l’accesso ad una procedura di asilo o di protezione internazionale equa e tempestiva, ciascun paese potrà applicare la propria legislazione in materia di espulsione e di accompagnamento in frontiera, nel rispetto delle garanzie di libertà e di difesa previste dallo stato di diritto.

Non sono certo le iniziative di contrasto militare in alto mare che potranno ridurre significativamente l’immigrazione clandestina in Italia, come insegna l’esperienza di questi ultimi anni.

Semmai, potrà solo aumentare, e ancora di molto, il numero delle vittime.

Il Parlamento italiano ha ratificato in bianco, senza neppure avere certezza dei costi e delle modalità di impiego delle sei unità navali concesse alla Libia, un accordo con quel paese che prevede i “pattugliamenti congiunti” e contrasta con il diritto internazionale del mare generalmente riconosciuto e con gli obblighi di salvataggio imposti a tutti i paesi firmatari della Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare. Non si sa quali effetti concreti potrà produrre il dispiegamento di sei motovedette sulla costa settentrionale della Libia, lunga migliaia di chilometri. Ne si può prevedere cosa potrà succedere quando si tratterà di procedere ad interventi di salvataggio.

Di certo, il recente accordo tra Libia e Malta per la ripartizione delle zone SAR ( Soccorso e salvataggio) nel Canale di Sicilia non sembra garantire alcuna concreta possibilità di salvezza per i migranti che si troveranno costretti ad attraversare il Canale di Sicilia, per gli scarsi mezzi di cui dispongono i due paesi, e per la scarsa disponibilità, già ampiamente dimostrata in passato, nel rispondere alle richieste di soccorso. Speriamo che le unità della Marina italiana siano ancora messe nelle condizioni di compiere quegli interventi di salvataggio in acque internazionali che hanno operato fino a ora. E impegniamoci anche perché non si continui a negare l’evidenza ed i cittadini italiani sappiano quali sono le conseguenze dirette ed indirette delle politiche di dissuasione violenta della “immigrazione clandestina”.

Il blocco dei flussi di ingresso regolare, la militarizzazione di Lampedusa e le pratiche ostruzionistiche nei confronti dei potenziali richiedenti asilo, non potranno che accrescere nei prossimi mesi il numero di “clandestini” che si troveranno comunque sul territorio italiano, se riusciranno ad arrivare, e che nessuno riuscirà ad espellere, come sta dimostrando l’esperienza fallimentare degli accordi con la Tunisia e come viene provato ancora una volta dalle posizioni che la Libia di Gheddafi sta assumendo sulla scena internazionale. Posizioni che, aggiunte alla diffusa corruzione delle forze di polizia di quel paese, non lasciano certo percepire né una maggiore collaborazione con le autorità italiane né, soprattutto, un qualche rispetto dei diritti umani delle persone migranti che vi transitano, o che da lì si imbarcano dirette verso l’Italia.

( di Fulvio Vassallo Paleologo)


Forse più in la, come già è avvenuto in passato, brandelli di corpi umani rimarranno impigliati nelle reti dei pescatori, perchè questo mare è diventato un cimitero.Il Canale di Sicilia, è ormai la tomba dei clandestini senza nome. Cadaveri che si vanno ad unire ai tanti altri cadaveri strappati all’esistenza, cancellati per sempre, come se non fossero mai stati su questa terra. MAI!

Ogni volta che dalla mia finestra guardo il mare, mi prende l'angoscia. Non ho più osato bagnarmi i piedi, non tanto per la paura di poter toccare un cadavere quanto per non profanare questo immenso incolpevole sepolcro.


Leggi quì tutti gli articoli sui Naufragi e tragedie nel mare pubblicate da Melting pot

La vignetta è di mauro biani

domenica 29 marzo 2009

Le magliette di moda nell’esercito israeliano: “meglio ammazzarli da piccoli”

La denuncia scioccante viene dal quotidiano israeliano Haaretz.

Ai soldati israeliani piace andare in giro con magliette che superano i classici simbolismi del militarismo per addentrarsi nella guerra del futuro, quella asimmetrica nella quale il protagonista è il cecchino onnipotente con la testa vuota che ammazza civili, meglio se donne e bambini.

E questo si riflette nella moda, nell’abbigliamento dei soldati di Tsahal.

Sembra vadano a ruba le magliette con disegni di bambini presi nel mirino, oppure madri piangenti sulle tombe dei figli oppure t-shirt come quella nella foto che mostra una donna palestinese incinta e lo slogan: “con un tiro due piccioni”.



Tutte le scritte sono per “uomini veri”, notevole per un esercito che fa dell’integrazione delle ragazze motivo d’immagine.

I riferimenti sessuali, perfino allo stupro, sono continui come sono continui quelli alla maternità “piangeranno, piangeranno”.

A una maglietta che mostra un bimbo ammazzato si accompagna un “era meglio se usavano il preservativo”.

A quella con un bambino palestinese nel mirino si accompagna un “non importa quando si comincia, dobbiamo farla finita con loro” che suona in italiano come “meglio ammazzarli da piccoli”.

Leggi tutto il reportage di Haaretz qui e conserva questo link per la prossima volta che ti diranno che i palestinesi educano i figli alla cultura dell’odio.

Fonte: gennarocarotenuto.it


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Cari Hermanos,
il nostro adagio "RESTIAMO UMANI" ,
diventa un libro.

E all'interno del libro il racconto di tre settimane di massacro,
scritto al meglio delle mie possibilità,
in situazioni di assoluta precarietà,
spesso trascrivendo l'inferno circostante su un taccuino sgualcito
piegato sopra un'ambulanza in corsa a sirene spiegate,
o battendo ebefrenico i tasti su di un computer di fortuna
all'interno di palazzi scossi come pendoli impazziti da esplosioni tutt'attorno.
Vi avverto che solo sfogliare questo libro potrebbe risultare pericoloso,
sono infatti pagine nocive, imbrattate di sangue,
impregnate di fosforo bianco,
taglienti di schegge d'esplosivo.
Se letto nella quiete delle vostre camere da letto rimbomberanno i muri
delle nostre urla di terrore,
e mi preoccupo per le pareti dei vostri cuori
che conosco come non ancora insonorizzate dal dolore.

Mettete quel volume al sicuro,
vicino alla portata dei bambini,
di modo che possano sapere sin da subito di un mondo a loro poco distante, dove l'indifferenza e il razzismo fanno a pezzi loro coetanei come fossero bambole di pezza.
In modo tale che possano vaccinarsi già in età precoce
contro questa epidemia di violenza verso il diverso e ignavia dinnanzi all'ingiustizia.
Per un domani poter restare umani.

I proventi dell'autore,
vale dire Vittorio Arrigoni,
me medesimo,
andranno INTERAMENTE alla causa dei bambini di Gaza sopravvissuti all'orrenda strage,
affinché le loro ferite possano rimarginarsi presto (devolverò i miei utili e parte di quelli de Il Manifesto al Palestinian Center for Democracy and Conflict Resolution, sito web:
http://www.pcdcr.org/eng/ , per finanziare una
serie di progetti ludico-socio-assistenziali rivolti ai bimbi rimasti gravemente feriti o traumatizzati ).


Nonostante offerte allettanti come una tournee in giro per l'Italia con Noam Chomsky, ho deciso di rimanere all'inferno,
qui a Gaza.
Non esclusivamente perché comunque mi è molto difficile evacuare da questa prigione a cielo aperto (un portavoce del governo israeliano ha affermato :"e' arrivato via mare, dovrà uscire dalla Striscia via mare"), ma soprattutto perché qui ancora c'è da fare, e molto, in difesa dei diritti umani violati su queste lande spesso dimenticate.

Non avremo certo gli stessi spazi promozionali di un libro su Cogne di Bruno Vespa o una collezione di lodi al padrone di Emilio Fede,
da qui nasce la mia scommessa,
sperando si riveli vincente.

Promuovere il mio libro da qui, con il supporto di tutti coloro che mi hanno
dimostrato amicizia, fratellanza, vicinanza, empatia.
Vi chiedo di comprare alcuni volumi e cercare di rivenderli se non porta a porta quasi, ad amici e conoscenti, colleghi di lavoro, compagni di università, compagni di
volontariato, di vita, di sbronza.
E più in là ancora, proporlo a biblioteche,
agguerrite librerie interessate ad un progetto di verità e solidarietà.
Andarlo a presentare ai centri sociali e alle associazioni culturali vicino a dove state.

Si potrebbero organizzare dei readings nelle varie città, (io potrei intervenire telefonicamente, gli eventi sarebbero pubblicizzati su Il Manifesto, sui nostri blog e aggiro per internet)
e questo potrebbe essere anche una interessante occasione per contarsi, conoscersi,
legarsi.
Non siamo pochi, siamo tanti,
e possiamo davvero contare,
credetemi.

Il libro lo trovate fin d'oggi nelle edicole con Il Manifesto,
e fra due settimane nelle librerie.

Confido in voi,
che confidate in me,
non per i morti
ma per i feriti a morte di questa orrenda strage.

Un abbraccio grande come il Mediterraneo che separandoci, ci unisce.

Restiamo umani.

vostro mai domo

Vik

( dal blog di Vittorio Arrigoni )


Per ordinare online i libri: QUI


giovedì 26 marzo 2009

Giochi cinesi

Pechino sfrutta il suo potere economico per esercitare pressione, anche quando si parla di sport o di pace



Annullata la conferenza sulla pace che avrebbe dovuto lanciare i mondiali di calcio sudafricani.
Troppe le polemiche per il visto negato al Dalai Lama: dalla società civile sudafricana agli altri premi Nobel invitati all’evento.
La Cina ringrazia.



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È stata rinviata la contestata conferenza di lancio dei mondiali di calcio in Sudafrica 2010, dopo le polemiche per il visto negato da Pretoria al Dalai Lama, uno dei 4 premi Nobel per la pace invitati all’evento, previsto per venerdì 27 marzo.
"Gli organizzatori hanno deciso, nell'interesse della pace, di rinviare la conferenza sulla pace in Sudafrica", ha dichiarato alla stampa il presidente Irvin Khoza, uno dei responsabili locali dei Mondiali 2010.
La conferenza proponeva un dibattito sul calcio come strumento di lotta al razzismo e alla xenofobia. Un tema quindi apolitico, vittima di pressioni politiche.
Ieri Pretoria aveva dichiarato di aver rifiutato il visto al leader spirituale dei tibetani "nel nome dell'interesse nazionale", ma fonti giornalistiche e diplomatiche hanno confermato le pressioni del governo cinese perché il leader tibetano non ottenesse il permesso di entrare nel paese.
Il comitato Nobel per la pace e due Premio Nobel sudafricani, Desmond Tutu e Frederik de Klerk, avevano subito annunciato l'intenzione di boicottare l'incontro.
In particolare Tutu ha accusato Pretoria di aver chiuso le porte al leader tibetano per non compromettere i rapporti con la Cina.

Ipotesi confermata dal portavoce del governo Themba Maseko.
In un comunicato stampa, diffuso mercoledì in tarda serata, Maseko ha sottolineato come la scelta del governo sudafricano sia stata presa a tutela degli interessi del paese per non mettere a rischio gli accordi bilaterali con la Repubblica popolare cinese.

Il Sudafrica è, infatti, il principale partner commerciali cinese nel continente, tanto da rappresentate il 20,8% degli scambi di Pechino con l'Africa.

La Cina si è detta soddisfatta per la decisione del governo sudafricano di non aver concesso il visto al leader buddista tibetano: Pechino lo accusa di usare la religione come pretesto per ottenere l'indipendenza della regione himalayana, e considera un affronto diretto ogni volta che il Dalai Lama viene ospitato o invitato in un paese straniero.
( Fonte: Nigrizia.it)

Tutto questo è scandaloso !

La Cina che riesce a condizionare popolazioni molto lontane dal suo territorio con la forza dell'economia.

E' vergognoso che Stati cosidetti "liberi e sovrani" si lascino manovrare come burattini in balia dei PADRONI dell'economia mondiale a discapito della democrazia, elemento essenziale per la PACE

domenica 22 marzo 2009

Ponte Galeria - Morire di Cie. Quando la detenzione amministrativa uccide

"...Ponte Galeria è il luogo della sospensione di tutto, non devi neppure scontare una pena. È una zona grigia, è una terra di nessuno nella quale non c’è legge se non quella di chi comanda...Man mano che giovani e meno giovani, nigeriani e bosniaci, rom e richiedenti asilo, tunisini e est europei ci si facevano incontro per parlare, raccontare, spiegare, chiedere, il funzionario di polizia Baldelli ha cominciato a spingerli, a intimare loro di farsi da parte, ci ha tolto di mano la penna con la quale stavamo prendendo appunti, ha preteso che gli consegnassimo il blocchetto, ci ha spinto verso l’uscita..."





Era successo già tante volte
, da quando erano stati istituiti i centri di permanenza temporanea (CPT) , nel 1998.

Quello stesso anno Amin Saber moriva in Sicilia, nel CPT di Pian del lago a Caltanissetta, in circostanze che non sono mai state chiarite, anche se a quell’epoca si parlò di un proiettile che, nel corso di un tentativo di fuga, lo avrebbe raggiunto alle spalle.

Poi, alla fine del 1999, la strage del centro di detenzione Serraino Vulpitta di Trapani, sei immigrati arsi vivi per la carenza di estintori e per i ritardi nell’apertura della cella nella quale erano rinchiusi con normali catenacci da saracinesca. I responsabili della struttura furono assolti dopo un lungo processo penale, ma per quel rogo lo stato italiano sta risarcendo oggi le vittime che riuscirono a salvarsi.

Da allora, anno dopo anno, una lunga serie di morti sospette, sempre archiviate con la ritrattazione dei pochi testimoni, mentre i mezzi di informazione si limitavano ad elencare le denunce e i decreti di espulsione che riguardavano le vittime. Un modo per tranquillizzare l’opinione pubblica, in fondo ad un clandestino, ad un pregiudicato, magari anche ad un tossicodipendente, che cosa può succedere se non finire i suoi giorni dentro un centro di detenzione amministrativa?

Ancora lo scorso anno, da Torino a Caltanissetta, altri decessi senza colpevoli, sempre il solito copione.

  • Le prime testimonianze che riferiscono di percosse da parte della polizia, o di ritardi nella somministrazione delle cure mediche, poi la ritrattazione dei testimoni oculari e quindi la “dispersione” di quanti potrebbero deporre durante un processo, con la esecuzione immediata di trasferimenti e di provvedimenti di espulsione.
  • Le cronache che riferiscono per qualche giorno della “morte di un clandestino”,
  • i responsabili delle strutture che affermano di essere intervenuti tempestivamente,
  • i vertici della polizia che escludono qualsiasi maltrattamento degli “ospiti”, come li chiamano loro, dei centri di detenzione.

Un copione che potrebbe ripetersi ancora, oggi a Ponte Galeria, dove è morto per arresto cardiaco un immigrato algerino in attesa di espulsione, Salah Souidani, di 42 anni, domani chissà dove.

Durante la visita all’interno del Centro Polifunzionale di Caltanissetta, ad esempio,diversi migranti, avevano fornito, alla presenza di parlamentari, una versione dei fatti, relativi alla morte di un giovane ghanese deceduto il 30 giugno 2008, che appariva assai diversa da quella fornita dalle autorità, in particolare per quanto concerne gli orari e le modalità di intervento dei medici. L’inchiesta avviata dalla magistratura non ha ancora stabilito le cause del decesso, se i soccorsi siano stati tempestivi, mentre la stampa locale ha continuato ad attribuire maggiore rilievo alla “cattura” di ambulanti privi di permesso di soggiorno o alla diffusione della tbc o della scabbia nei centri di accoglienza. Come al solito nessuno spazio sulle cronache nazionali.

Quando si verifica la morte di un immigrato dentro un centro di detenzione amministrativa, non si può continuare a ripetere sempre che si è trattato solo di “fatalità”, chiudendo in tutta fretta il caso.

Chiediamo alla magistratura, oggi a Roma come ancora a Caltanissetta, dopo la autopsia dei cadaveri delle vittime, un accertamento tempestivo dei fatti e delle eventuali responsabilità . Nell’interesse dei migranti, che sono e saranno ancora trattenuti nei centri di detenzione italiani, e degli stessi operatori delle strutture, che resterebbero altrimenti macchiati a vita dall’ombra del sospetto. Chiediamo soprattutto che vengano forniti alla magistratura i filmati registrati dai sistemi di sorveglianza, e che i diversi centri di trattenimento o di accoglienza non siano più, in futuro, affollati da un numero di persone superiore alla loro capienza, o impermeabili alla stampa ed alle associazioni umanitarie indipendenti.

Quanto succede nei CIE italiani, la tragedia maturata all’interno del centro di identificazione e d espulsione di Ponte Galeria, non sono frutto di fatalità o di eventi straordinari, ma derivano dalle modalità di gestione militare dei centri di detenzione, ancora più “avvelenata” dopo l’inasprimento che si è voluto da parte del governo con il prolungamento dei termini di trattenimento fino a sei mesi. Quando qualcuno si sente male viene spesso ignorato perché si pensa che sia solo un tentativo di fuga, e le proteste vengono duramente represse, con l’uso della forza nei confronti degli immigrati. Il centro di Ponte Galeria a Roma rimane poi la struttura più inaccessibile ed anche quella dalla quale si effettuano i rimpatri verso i paesi di provenienza, come probabilmente si stava verificando anche nel caso di Salah Souidani, un luogo nel quale la disperazione può raggiungere il massimo. La notizia di una frettolosa apertura di altri (sette o dieci non si sa) centri di detenzione amministrativa in diverse regioni italiane, la trasformazione dei centri di emergenza istituiti in base alla Legge Puglia del 1995, in centri “chiusi” e la commistione tra immigrati appena sbarcati (ai quali si potrebbe tra poco applicare il nuovo reato di immigrazione clandestina), ed immigrati da espellere dopo essere stati arrestati ed espulsi, perché privi di un permesso di soggiorno, non possono che alimentare le preoccupazioni più gravi per il futuro. Ed è noto quanto la detenzione amministrativa, prolungata adesso a sei mesi, risulti poco efficace al fine di un riconoscimento delle persone e di un effettivo rimpatrio. Ma quello che preoccupa maggiormente è il livello di abbandono nella quale versano gli immigrati che transitano in queste strutture, un abbandono che può anche uccidere. La carenza di assistenza medica e legale nei centri di trattenimento italiani, comunque denominati, risale a molti anni fa ed è stata altresì rilevata dalla Commissione Libertà civili e giustizia del Parlamento Europeo nel dicembre del 2007. Eppure malgrado queste denunce e le critiche contenute nella relazione della Commissione De Mistura, nella passata legislatura, la situazione dei CIE è sempre più militarizzata, poco importa se la sorveglianza è affidata alla Polizia di Stato o alla Croce Rossa militare, di centri di detenzione si continua a morire. Un recente rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro ha descritto il razzismo istituzionale praticato in Italia ai danni degli immigrati. Il sistema dei centri di detenzione amministrativa, soprattutto dopo il prolungamento del trattenimento fino a sei mesi, rappresenta il perno delle politiche di esclusione e di criminalizzazione che con violenza crescente si rivolgono nei confronti degli immigrati. Piuttosto che reagire con sdegno alle accuse ben documentate del rapporto delle Nazioni Unite, sarebbe bene che i rappresentanti del governo si preoccupassero di verificare il rispetto delle norme e dei diritti fondamentali dei migranti rinchiusi nei CIE italiani.

Le esperienze precedenti, i ricorrenti insabbiamenti non ci permettono di nutrire fiducia nelle indagini amministrative già disposte dal Ministero dell’Interno “per fare chiarezza” su quanto realmente accaduto nel centro di detenzione di Ponte Galeria.
La copertura data dal governo, ancora oggi, ai protagonisti della “macelleria messicana” di Bolzaneto e della Diaz lascia prevedere , ammesso che si riesca ad individuare dei responsabili, un simile atteggiamento anche nei confronti di coloro che compiono violenze ed abusi ai danni degli immigrati rinchiusi nei CIE o in strutture similari. Chiediamo una ispezione urgente del Comitato di prevenzione della tortura (CPT) del Consiglio d’Europa, nei centri di detenzione amministrativa italiana, comunque denominati, per accertare le condizioni di legalità, il rispetto del diritto alla salute e delle norme di sicurezza. Chiediamo alla Commissione Europea un rigoroso monitoraggio delle modalità di attuazione in Italia della Direttiva 2008/115/CE in materia di rimpatri e di detenzione amministrativa.

( di Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo pubblicato su http://www.meltingpot.org/)

Vedi anche :

- Tutto sul Cpt di Ponte Galeria

giovedì 19 marzo 2009

Algerino muore nel Cie di Ponte Galeria

"Hanno ammazzato un algerino". La notizia, ancora non confermata, è arrivata poche ore fa dall'interno del Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria a Roma.

A contattarci uno dei ragazzi rinchiusi, del quale non riveliamo il nome.

"Stava male, ieri sera, ed è stato portato nell'infermeria del centro. Non si sa cosa avesse, di quale malattia soffriva. I poliziotti lo hanno portato nell'infermeria, dove è stato visitato. Pensavano che fingesse. Pensavano che non avesse nulla".

La nostra fonte ci riferisce che i poliziotti lo hanno picchiato e che gli è stato detto di 'andarsi a prendere le medicine al suo Paese'.

"Quando lo hanno dimesso dall'infermeria, prima che rientrasse nella stanza, lo hanno menato. Lo abbiamo trovato morto stamattina, nella sua stanza. Abbiamo chiamato i poliziotti, che si sono avvicinati e hanno cominciato a muoverlo, con i piedi. Poi lo hanno portato fuori".

Da quanto tempo era dentro? "Solo due giorni".

Quanti anni aveva? "Ventiquattro".

Il direttore del centro, Fabio Ciciliano, contattato successivamente, ha confermato la morte dell'algerino, smentendo tuttavia il fatto che la persona sia deceduta a causa di percosse.

"L'uomo non ha 24 anni, ma 42 - ha detto Ciciliano - e non è stato picchiato dalla polizia. La causa del decesso è un arresto cardiocircolatorio. L'uomo è deceduto stamattina, dopo essersi sentito male durante la notte. Era tossicodipendente". Ciciliano ha avvertito l'autorità giudiziaria, che disporrà l'autopsia per accertare le cause della morte.

(Fonte PeaceReporter, autore:Luca Galassi)

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Aveva 42 anni ed era originario dell’Algeria.
L'immigrato era arrivato ieri da Modena nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, a Roma.
Questa mattina, poco dopo le 10, l’hanno trovato morto
La versione ufficiale, resa nota dal direttore del Centro, Fabio Ciciliano, parla di un arresto cardiocircolatorio.
“L’uomo – dice – era tossicodipendente”, smentendo, in questo modo, la notizia che la morte possa essere avvenuta a causa delle percosse e della negligenza della polizia.
In realtà, secondo il racconto fatto da alcuni testimoni , l’uomo si sarebbe sentito male la scorsa notte e, dopo una visita sommaria, i poliziotti avrebbero ritenuto che fingesse per potersi così allontanare dal Centro. Lo avrebbero quindi picchiato, intimandogli “di andarsi a curare al suo Paese”.
La mattina dopo i compagni di cella lo hanno trovato morto.


La testimonianza a Radio Popolare. «Noi - ha detto l'immigrato - dicevamo a loro che era morto ma i poliziotti dicevano che faceva finta di essere morto per uscire e scappare. È successo stanotte intorno alle 11. Non hanno fatto niente, lo hanno fatto sdraiare, lui ha cominciato a pregare perché aveva capito che stava per morire, ma loro continuavano a pensare che lui volesse uscire fuori per scappare». E ancora: «Quell'uomo ieri sera si è sentito male, aveva male allo stomaco, hanno chiamato la Croce Rossa per vedere cosa c'era, ma la polizia ha fatto dei problemi». Il testimone dice che «la polizia lo ha picchiato, non lo so con cosa, poi lui è tornato in stanza. Oggi lo hanno trovato morto. Aveva la faccia gonfia, i piedi e le mani blu»




E' difficile sperare in un'inchiesta seria con questo clima di razzismo dilagante!


sabato 14 marzo 2009

La disavventura di un deputato del Parlamento europeo a Regina Coeli.

L'avvocato di Karol Racz, Lorenzo La Marca, ha riferito che nel corso dell'ultimo colloquio in carcere, avvenuto sabato scorso, Racz avrebbe avuto forti disturbi all'udito, arrivando a perderlo quasi del tutto; inoltre, avvicinando un dito a un orecchio, ha notato davanti al legale di perdere sangue. L'avv. La Marca, dopo essersi consultato con un medico che consigliava il ricovero immediato di Racz per accertamenti, ha inoltrato una richiesta al Gip di ricovero presso una struttura sanitaria; a tuttora il Giudice non ha dato alcun riscontro al riguardo.

Si ricorda che il diritto alla salute è uno dei diritti inviolabili della persona, sancito dalla Costituzione italiana (art. 32) e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione europea (art. 3, diritto all'integrità della persona, art. 35, diritto alla salute, e altri).

Alexandru Isztoika Loyos ha dichiarato di essere stato costretto a confessare una colpa non commessa sotto tortura e altri trattamenti inumani.

L'articolo 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani condanna le forme di violenza istituzionali: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.”

Ma sembra che a nessuno venga in mente di appurare i trattamenti inumani denunciati da Isztoika Loyos e Racz.

Nonostante le prove del DNA (eseguite in più riprese per scongiurare errori su tutte le tracce rinvenute dalla Scientifica sul luogo dello stupro), gli Inquirenti non sembrano intenzionati a rilasciarli, né a metterli in condizione di relazionarsi con altre persone all'infuori dei loro carcerieri e dei due legali.



Temendo l'eventualità di un “suicidio” in cella, o comunque una morte in circostanze misteriose all'interno del carcere, il Gruppo EveryOne, organizzazione internazionale di Diritti Umani, incaricata dall'on. Viktoria Mohacsi al Parlamento europeo, hanno avanzato la richiesta di poter incontrare al più presto in carcere i due romeni, per constatarne le condizioni di salute e interrogarli accuratamente sull'intera vicenda.
" Se vi è stata effettivamente tortura, fra le procedure adottate da chi conduce l'inchiesta sui romeni, possiamo anche aspettarci di trovare una confessione manoscritta e firmata accanto al cadavere di Racs o di Isztoika Loyos: una tipologia di “suicidi” caratteristica dei regimi polizieschi." LEGGI tutto l'articolo

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Ecco come hanno impedito a Giulietto Chiesa ed alcuni esponenti dell'associazione Everyone, di visitare i due detenuti rumeni



Un grave episodio al Carcere Regina Coeli di Roma

A Giulietto Chiesa, deputato del Parlamento europeo , non è stato consentito di avere un colloquio con i due rumeni accusati dello stupro al parco della Caffarella avvenuto il 14 febbraio scorso, nonostante la legge lo permetta a chi è stato eletto dal popolo.

L'illegalità diventa di Stato.


Roma, 13 marzo 2009

Oggi, 13 marzo 2009, sono stato testimone di un fatto gravissimo: la direzione del Carcere di Regina Coeli di Roma non mi ha permesso di visitare i due detenuti rumeni accusati e involontari protagonisti dello stupro al Parco della Caffarella. Chi ha autorizzato i funzionari del carcere a una così evidente violazione della legge?

L'articolo 67 della legge 354/75 che regolamenta il regime carcerario consente a ogni rappresentante eletto di visitare i detenuti senza alcun preavviso; per questo motivo in mattinata insieme ad alcuni esponenti dell'associazione in difesa dei diritti umani “Everyone”, mi sono recato al Regina Coeli per visitare in veste di europarlamentare Karlo Racz e Alexandru Istoika.

Nonostante la regolare esibizione di tutti i documenti, la direzione ha addotto per quasi due ore tutta una serie di pretesti formali e burocratici (avrebbe per esempio permesso il mio accesso, ma non quello del nostro interprete rumeno) che mi hanno proibito di esercitare le mie prerogative.

Si tratta di una grave violazione delle regole democratiche, che fa parte di un'operazione politica organizzata: pur di sbattere un mostro in prima pagina, si mette alla gogna il primo malcapitato, sull'onda emotiva di un'opinione pubblica sempre più spaventata dai media.

Il caso dei due rumeni peraltro dimostra che tali comportamenti isterici sono dannosi per lo svolgimento delle indagini, distorcendone il regolare funzionamento e impedendo l'individuazione dei reali colpevoli.

In qualità di deputato europeo mi riservo di intraprendere tutte le azioni legali necessarie per accertare le responsabilità dell'episodio e di presentare una formale interrogazione in sede europea.

Giulietto Chiesa
Europarlamentare

Guarda l'intervista a Giulietto Chiesa




Fonte: www.giuliettochiesa.it
La vignetta : Mauro Biani

martedì 10 marzo 2009

In Italia si può essere fascisti

Saverio Tommasi e Ornella De Zordo presentano il video numero 2, che fa parte di un progetto di video/inchieste dal titolo "l'altrainchiesta - 10 brutte storie italiane".

Razzisteria: destra estrema in Italia e nella "rossa" Toscana


Con questo video, denuciano le connivenze culturali fra i gruppi di estrema destra fascista e i partiti di destra che attualmente governano l'Italia.


In Italia si può essere fascisti !
Sembrerebbe non essere più reato.

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Pare che i neofascisti vanno mooolto di moda


«La nostalgia del Duce esiste, ha il volto di ragazzi normali e parla di valori tradizionali: Dio, Patria e famiglia»
.
Sono alcune delle parole con cui inizia un lungo articolo che il mensile TopGirl ha dedicato alla nuova moda degli adolescenti: il neofascismo.
La rivista, edita da Gruner+Jahr/Mondadori, (gruppo mondadori, proprietà famiglia berlusconi) è una delle più lette tra le teenager italiane. E ha pensato bene di dedicare sei paginate a quella che loro descrivono come una moda, una nostalgia tornata in voga. Cinture con la croce celtica, tatuaggi che raffigurano Mussolini, il fascio littorio, la svastica.
Leggi tutto l'articolo di Paola Zanca, QUI

Ragazze date retta a me, il fascismo è noia, tristezza, regole anacronistiche, disciplina, censura.

In chiusura vi propongo questo video ( versione sottotitolata del celebre spot tedesco, della serie:(Film contro le violenze di destra)


giovedì 5 marzo 2009

8 marzo - Giornata internazionale delle donne

L'8 marzo 1857 a New York, centinaia di operaie delle aziende tessili manifestarono per ottenere migliori condizioni lavorative, riduzione dell'orario di lavoro e parità di diritti tra uomini e donne.
Cinquantuno anni dopo, l'8 marzo 1908, 15 mila operaie tessili marciarono di nuovo a New York chiedendo, questa volta, il diritto di voto, la chiusura definitiva delle cosiddette "fabbriche del sudore" e l'abolizione del lavoro minorile.

Oggi la Giornata internazionale delle donne è ricordata in tutto il mondo, è celebrata dalle Nazioni Unite e in molti paesi è considerata festa nazionale.

Nell'ultimo secolo lo scenario relativo ai diritti delle donne è mutato drasticamente.
Sono diventate protagoniste attive dei processi decisionali e hanno realizzato passi significativi verso l'eguaglianza economica. A livello globale esistono trattati giuridicamente vincolanti che proteggono e promuovono i loro diritti.

Tuttavia le donne continuano a essere vittime di violenza, in particolare violenza sessuale, diffusa in modo preoccupante.

In tempo di guerra, sono spesso considerate veri e propri obiettivi militari.
Si stima che, durante il conflitto armato in Sierra Leone (1991-2002), almeno una donna/ragazza su tre abbia subito uno stupro o altre forme di violenza sessuale, da parte di tutti i principali attori degli scontri: forze governative, combattenti civili e fazioni armate avversarie.

La violenza sessuale è anche strettamente collegata al circolo vizioso che si crea tra povertà e insicurezza.
A Haiti, per esempio, molte ragazze non possono permettersi di pagare le tasse scolastiche e sono quindi costrette a sottostare ad abusi sessuali e violenze in cambio di regali o soldi per garantirsi l'istruzione. Altre rimangono vittime di violenza sessuale mentre percorrono strade poco o per nulla illuminate.

Le donne artefici del cambiamento


Sebbene nel mondo dilaghino l'insicurezza e la violenza contro le donne, sono proprio loro che, superando enormi ostacoli, hanno ottenuto cambiamenti positivi per l'intera società.

In Liberia, le donne che hanno combattuto come bambine-soldato stanno ora lavorando affinché tutte coloro che hanno subito violenza durante i conflitti armati (1989-1997 e 1999-2003) ottengano giustizia. Si stima che le donne rappresentassero oltre il 30 per cento delle forze armate. Durante il conflitto, Florence Ballah e Jackie Redd sono state portate via dalle loro abitazioni e hanno combattuto per fazioni rivali, adesso si sono unite e lottano per fare in modo che le donne della Liberia abbiano una vita migliore.

In Nepal, la violenza sulle donne è un fenomeno molto diffuso sebbene, a seguito della caduta della monarchia nel 2006, alcuni cambiamenti positivi siano avvenuti, soprattutto per quanto riguarda la presenza femminile nella sfera pubblica. Le donne che lottano in difesa dei diritti umani e contro ogni forma di violenza però sono ancora vittime di molestie e intimidazioni da parte di attori statali e non.

In Iran, le attiviste della Campagna per l'uguaglianza lottano perché venga messa fine alla discriminazione legale delle donne. Sono spesso vittime di attacchi da parte del governo: nel 2008, Parvin Ardalan, Nahid Keshavarz, Jelveh Javaheri e Maryam Hosseinkhah sono state condannate a sei mesi di carcere. Dal 2006 oltre 50 attiviste sono state detenute dalle autorità e a molte è stato vietato di lasciare il paese. Nonostante ciò, la loro lotta per il cambiamento continua.

In ogni paese donne coraggiose e determinate lavorano per costruire un mondo migliore.
Le loro voci devono essere ascoltate.
Il loro contributo deve essere riconosciuto e incoraggiato.
Le violazioni dei diritti umani non possono essere fermate senza un'attiva partecipazione di chi ha subito in prima persona la violenza.
La violenza di genere colpisce donne di ogni età, classe sociale, religione, paese ed etnia.


Comprende tutti quegli abusi subiti dalle donne in casa o nel contesto familiare, da parte degli uomini con i quali condividono le loro vite. La violenza domestica si manifesta in varie forme: abusi fisici e psicologici, atti di violenza o tortura, stupro coniugale, incesto, matrimoni forzati o prematuri, delitti d'onore. Il 70% di donne vittime di omicidio sono state uccise da partner o ex partner (Organizzazione Mondiale della Sanità).

La violenza nella comunità

Donne comprate e vendute Si stima che le donne vittime della tratta, avviate al mercato della prostituzione, siano 500.000 nella sola Europa occidentale. La situazione delle vittime di tratta può essere definita in molti casi schiavitù. Le violazioni subite possono includere l'uso della violenza fisica, lo stupro, le minacce psicologiche, la reclusione, il sequestro del passaporto e del denaro.


Le mutilazioni genitali femminili sono pratiche tradizionali che hanno gravissime conseguenze sia fisiche che psicologiche per le donne e le bambine che vi sono sottoposte, che si stima siano 135 milioni nel mondo. Queste pratiche sono diffuse in molti paesi africani, in alcune zone della penisola arabica e dell'Indonesia e all'interno di alcune comunità immigrate in Europa, America e Oceania.


Abusi nei conflitti armati
Nelle situazioni di guerra le donne sono esposte a sistematiche violazioni dei loro diritti. Lo stupro non è un incidente di guerra, un "danno collaterale", ma uno strumento di terrore utilizzato con precisi fini dai soldati e da altri combattenti: terrorizzare le donne, colpire il nemico nell'onore, destabilizzare la società e annientarne la resistenza, "premiare" i soldati, estorcere informazioni.

Amnesty International celebra la lotta delle donne attraverso i secoli per ottenere uguaglianza e giustizia

L'8 marzo 2009 - Giornata internazionale delle donne: Amnesty International celebra la lotta delle donne attraverso i secoli per ottenere uguaglianza e giustizia.

L'8 marzo aggiungi la tua voce a quella di Amnesty International.

Firma perchè i diritti delle donne in Grecia, Venezuela, Haiti, Messico e Sudafrica siano rispettati!

Firma qui tutti i 10 appelli della campagna, GRAZIE!
N.B. Clicca su ogni storia, firma e passa a quella successiva... mi raccomando tutte e dieci.


FONTE: AMNESTY ITALIA