(Enzo Maiorca)
Il pesce come animale
Jacques Cousteau una volta ha chiamato gli oceani “il mondo silenzioso”, e per lungo tempo la scienza è stata d’accordo con lui. Ma quando un ricercatore del Marine Biological Laboratory di Woods Hole, Massachusetts, ha portato con sé durante un’immersione un microfono appositamente modificato, è stato “travolto dai suoni”. È riuscito a sentire, per esempio, cernie abbaiare allo scorgere di un predatore, ciclidi emettere versi simili a grugniti durante l’accoppiamento o pesci hamlet emettere persino gridolini durante l’orgasmo. Ma i pesci usano anche altre forme di comunicazioni più sofisticate, come i pesci “elettrici” dell’Africa o del Sud America, che trasmettono segnali elettrici. Anche per ciò che riguarda le loro capacità mentali, questi animali sembrano essere molto sottovalutati. Alcuni pesci, come il polpo, sono particolarmente intelligenti e capaci di compiere attività elaborate. Pesci “addestrati” da studiosi in laboratorio hanno imparato a spingere una leva - e solo a determinati orari - per ottenere cibo.
Come noi, i pesci sono animali dotati di un cuore pulsante che pompa sangue, e come noi, presentano un cervello. Anche i pesci dormono, ma il loro sonno può essere di due tipi diversi. Si ha il riposo vigile, che corrisponde a una specie di veglia dove il cervello viene fatto riposare ma i sensi sono attivi, e il sonno vero e proprio, inteso come sospensione completa di ogni attività.
Gli animali marini hanno anche una percezione del mondo simile alla nostra. L’udito viene percepito mediante la vescica natatoria. Hanno papille gustative nella gola, così come nel naso e nelle labbra. Sono dotati di narici, che non hanno funzione respiratoria ma strettamente olfattiva. La vista è un senso che i pesci hanno sviluppato in modi diversi. La maggior parte di essi presenta gli occhi ciascuno su un lato: ciò consente loro di avere un campo visivo di quasi 360° e una visione monoculare (ognuno dei due occhi mette a fuoco indipendentemente dall’altro), non ad alta definizione ma che permette di controllare l’eventuale avvicinarsi di un pericolo. Altri tipi di pesci presentano invece occhi ravvicinati e visione binoculare, con un campo visivo ad alta definizione davanti alla loro testa, adatto ad avvicinarsi alle prede. I pesci usano la bocca più o meno come noi usiamo le dita, per afferrare ed esplorare gli oggetti, per raccogliere cibo, costruire rifugi e prendersi cura dei cuccioli (quando avvertono un pericolo vicino, alcuni pesci aprono la bocca per permettere ai piccoli di nascondersi all’interno). Di fatto, la bocca dei pesci è così sensibile agli stimoli, che il dolore che provano quando un amo la penetra deve essere un dolore terribilmente acuto. Oltre ai sensi tipicamente umani, i pesci sono infine dotati di “radar” sulla schiena, che registrano vibrazioni e campi elettrici.
È stato dimostrato che i pesci - come gli altri animali vertebrati - hanno un sistema molto sviluppato che li aiuta a proteggersi dal dolore intenso, evitandogli così di mettere a rischio la propria vita se, in seguito a qualche grave ferita - quale ad esempio quella che può essere causata da un grosso predatore - fossero del tutto impossibilitati a muoversi. Quando un pesce è ferito, questo sistema rilascia delle sostanze naturali simili agli oppiacei (encefaline ed endorfine) in grado di “addormentare” il dolore, così da permettere all’animale di reagire e tentare una fuga. È proprio la presenza di questo sistema, quindi - che altrimenti non avrebbe ragione di esistere - che dimostra la capacità nei pesci di provare dolore.
In uno studio inglese piuttosto recente i ricercatori hanno inoltre evidenziato nel cranio dei pesci l’esistenza di recettori del sistema nervoso in grado di rispondere agli stimoli dolorosi. Nell’occasione, la Royal Society, la principale associazione scientifica britannica, ha dichiarato, senza mezzi termini, che: «Quanto riportato indica che i pesci possono avvertire il dolore». Secondo il ricercatore che ha condotto lo studio, «la risposta dei pesci allo stress è molto simile alla nostra».
Già nel 1996, il Rapporto sul benessere dei pesci d’allevamento a cura del Consiglio per il benessere degli animali d’allevamento, su consultazione del Ministero dell’Agricoltura inglese, concludeva che “l’evidenza scientifica [...] mostra chiaramente che il termine stress è sicuramente rilevante per quanto riguarda i pesci e che le modalità secondo le quali lo stress si manifesta in essi sono estremamente simili a quelle dei mammiferi. Che il temine dolore possa essere fondatamente utilizzato riferendosi ai pesci è dimostrato da studi anatomici, fisiologici e comportamentali, i cui risultati sono molto simili a quelli degli studi compiuti su uccelli e mammiferi. Il fatto che i pesci siano animali a sangue freddo non significa che essi non possiedano un sistema nervoso che permetta di provare dolore e che sia effettivamente preposto a preservare la vita e massimizzare l’idoneità biologica degli individui. Le cellule recettrici, i neuroni e le sostanze specializzate nella trasmissione presenti nel sistema nervoso dei pesci sono estremamente simili a quelli presenti nei mammiferi”.
Non solo i pesci sono in grado di sperimentare dolore, ma possono provare anche paura. In un esperimento condotto nel 1987 all’Università di Utrech, i ricercatori hanno osservato che un pesce preso all’amo con filo non in tensione mostra solo evidenti segni di agitazione per il dolore che sperimenta, mentre quando il filo viene tirato, il pesce mette in azione un particolare meccanismo, definito spitgas (ovvero l’espulsione di una miscela gassosa nella vescica natatoria) . In condizioni normali, lo spitgas è usato dal pesce per regolare la propria profondità di immersione. Nella situazione di amo teso dell’esperimento, invece, il pesce perdeva il controllo di questo sistema, che andava in “tilt” e lo lasciava cadere senza controllo verso il fondo dell’acquario. Successivamente i ricercatori hanno osservato che negli stessi pesci questo sistema andava in “tilt” anche quando venivano aggiunti all’acqua feromoni, sostanze chimiche che vengono rilasciate da un organismo in situazioni di pericolo. I pesci, quindi, pur non essendo soggetti a stimoli dolorosi di alcun tipo, reagivano con lo spitgas in risposta alla sola sensazione di paura associata. Ciò significa che, quando il pesce perde il controllo dello spitgas (come nella situazione di amo teso dell’esperimento), ciò è il segnale di una intensa paura sperimentata dall’animale stesso. I ricercatori hanno quindi concluso che il dolore di un pesce preso all’amo contribuisce alla sua sofferenza in misura minore rispetto alla paura sperimentata (nell’essere trascinati da una forza misteriosa in direzione opposta a quella di fuga). È quindi la paura, e non tanto il dolore intenso, che fa soffrire un pesce preso all’amo. E la stessa paura si manifesta in un pesce confinato in una piccola vasca, come dimostrato nello stesso esperimento osservando ancora una volta i pesci perdere il controllo dello spitgas.
I pesci quindi provano dolore e paura. E gridano anche. Secondo il biologo marino Michael Fine, la maggior parte dei pesci che producono suoni “vocalizzano” quando vengono colpiti, intrappolati o inseguiti. Durante esperimenti condotti da William Tavolga si è scoperto che i pesci rospo brontolano quando subiscono uno shock elettrico. Non solo, ma essi cominciano molto presto a brontolare alla sola vista di un elettrodo.
Il pesce come cibo
Attualmente i pesci rappresentano gli animali dell’industria alimentare meno considerati dall’opinione pubblica e certamente i più numerosi: solo sulle tavole italiane vi finiscono centinaia di milioni di pesci ogni anno. Data l’enormità del massacro, non possono essere quantificati in numero di individui uccisi. Il loro valore commerciale è espresso in chili, non in individui. Sempre considerando solo l’Italia, si parla di qualche centinaio di migliaia di tonnellate di “pesce” consumate ogni anno. Per l’uccisione di questi animali non esiste alcuna tutela né alcuna normativa regolamentare. Non vi è nessuna forma di stordimento, come previsto per gli altri animali allevati per l’alimentazione.
La pesca commerciale
Oggigiorno l’industria commerciale del pesce utilizza enormi pescherecci industriali dalle dimensioni più grandi di un campo da calcio e impiega sofisticati strumenti elettronici e comunicazioni via satellite per localizzare i banchi di pesce. Le società più grandi fanno uso addirittura di aerei ed elicotteri.
Nella pesca a strascico, reti enormi, a volte estese per miglia, si dipanano nell’oceano. I pescherecci trainano queste immense reti nell’acqua, ammassandovi al loro interno ogni forma di vita marina che incontrano sulla loro strada, senza distinzione. In alcuni casi di pesca a strascico dei gamberi, il tasso di catture accidentali raggiunge anche il 90 per cento del pescato. Ma il problema delle catture accidentali non riguarda solo la pesca a strascico, purtroppo. Per ogni diversa tecnica di pesca, diverse specie animali finiscono catturate accidentalmente. Così, oltre al “pesce commerciale”, finiscono vittime della pesca anche delfini, squali, balene, tartarughe, uccelli marini e molti altri animali. Si stima che quasi 100 milioni di squali e di razze vengano ogni anno catturati accidentalmente. La pesca del tonno è ancora responsabile della morte di molti squali, mentre trecentomila cetacei - balene, delfini e altre specie - ogni anno rimangono intrappolati nelle reti e muoiono non riuscendosi a liberare. Gli uccelli marini sono attratti dalle esche che in alcuni tipi di pesca vengono poste in superficie: le mangiano, ingoiano gli ami, e vengono trascinati sott’acqua, annegando. Circa centomila esemplari di albatros ogni anno muoiono in questo modo. Oltre alle specie non bersaglio, il fenomeno delle catture accidentali riguarda anche esemplari di specie bersaglio che però non hanno valore commerciale in quanto troppo piccoli. È difficile avere una chiara idea, ma si stima che circa un terzo del pesce pescato nei mari di tutto il mondo venga poi scartato. Chi mangia pesce dovrebbe assumersi la responsabilità della morte di delfini, squali, balene, tartarughe, uccelli marini e di altri milioni di animali, morti ugualmente anche se non presenti nel suo piatto.
Ma ovviamente, la maggior parte degli animali vittime della pesca sono i pesci consumati dalla popolazione. Nelle enormi reti a strascico, i pesci intrappolati, per ore, vengono schiacciati e sbattuti l’un l’altro insieme a rocce e detriti oceanici finiti nella rete. Molti pesci intrappolati nelle reti muoiono per via delle gravi ed estese lacerazioni che si procurano all’interno delle reti. In altri casi muoiono schiacciati o, nel tentativo di liberarsi, si divincolano in maniera così violenta fino all’avvelenamento o alla paralisi per l’eccessivo rilascio di acido lattico. Quando vengono issati dalle profondità marine, i pesci subiscono una dolorosa decompressione: spesso l’elevata pressione interna spacca la vescica natatoria, causa la fuoriuscita dei bulbi oculari e spinge l’esofago e lo stomaco fuori dalla bocca.
Una volta issate le reti, i pesci più piccoli sono normalmente gettati su letti di ghiaccio tritato, mentre i pesci più grandi, come il merluzzo e i tonni, vengono colpiti con corti bastoni acuminati e gettati direttamente sul piano della nave. Successivamente la gola e il ventre dei pesci vengono aperti. Nel frattempo il pesce di scarto - vivo o morto - viene scagliato fuori bordo spesso per mezzo di forconi.
L’acquacoltura
Oltre ai pesci pescati in mare, si va diffondendo sempre di più l’acquacoltura, ovvero l’allevamento intensivo di pesci, molluschi e crostacei in ambienti controllati. Nell’Unione Europea i principali prodotti dell’acquacoltura sono trote, salmoni, spigole, orate, cozze, ostriche e vongole. L’acquacoltura è diventata oggi un’industria che muove enormi affari. In Italia il pesce d’allevamento incide per il 38 per cento sulla produzione nel settore ittico, con 250 milioni di euro di fatturato solo nel 2003, evidenziando così una rapida crescita negli ultimi anni. Circa mille sono, nel nostro Paese, gli impianti attivi nel settore dell’itticoltura, con circa 150-200.000 tonnellate di pesce allevato in un anno (oltre l’80 per cento sono trote, seguono poi spigole, orate e anguille). Negli ultimi sei anni la produzione mondiale, secondo la FAO, è passata da 35,5 a 47,8 milioni di tonnellate. Il National Fisheries Institute (Istituto nazionale delle industrie della pesca statunitense) definisce l’acquacoltura come “uno dei settori dell’industria della produzione di cibo con la più rapida crescita a livello mondiale”.
I pesci allevati nelle “acquafattorie” vivono in vasche al chiuso con illuminazione artificiale (allevamento “a terra”) oppure in gabbie posizionate in mare. Vengono nutriti con alimenti artificiali (in particolare farine e olii ricavati dall’uccisione di altri pesci), ricchi di grassi, che consentono un rapido ingrassamento dell’animale. I mangimi possono contenere anche diossina, purchè non superino determinati limiti (come imposto dalla Direttiva 2001/102/CE).
Per dimostrarsi redditizie, le “acquafattorie” devono allevare un numero elevatissimo di animali in spazi ristretti. A tutt’oggi, il limite massimo di densità in allevamento non è disciplinato da nessuna legge. Gli animali si trovano pertanto imprigionati in queste vasche schiacciati uno contro l’altro, senza possibilità di nuotare - o, nel caso dei crostacei, di spostarsi - in maniera adeguata. In questa situazione i pesci subiscono danni alla testa e alle pinne sbattendo ripetutamente tra di loro o contro la vasca. Molti pesci mostrano segni evidenti di intenso stress, come, ad esempio, il saltare continuamente fuori dall’acqua.
In queste condizioni di vita, gli animali, fortemente stressati, risultano facili prede di malattie epidemiche. Di conseguenza, per mantenere sotto controllo la proliferazione dei parassiti, le infezioni di epidermide e branchie e altre malattie tipiche dei pesci di allevamento, oltre ai vaccini, i tecnici delle “acquafattorie” pompano massicce dosi di antibiotici direttamente nell’acqua delle vasche, insieme a sostanze chimiche specifiche per il controllo dei parassiti. Con l’uso di altri farmaci particolari, ormoni e tecniche di ingegneria genetica viene accelerata la crescita e modificato il comportamento riproduttivo degli esemplari.
Come nella pesca commerciale, anche in questo caso nessuna legge tutela il “benessere” degli animali al momento dell’uccisione. I pesci vengono spesso privati del cibo negli ultimi giorni che precedono la macellazione, allo scopo di ridurre la contaminazione dell’acqua durante il trasporto. Alcuni pesci vengono uccisi tagliando le loro arcate branchiali e lasciandoli sanguinare fino alla morte, in preda a convulsioni e altri evidenti segni di sofferenza. Le anguille vengono uccise recidendo loro il collo, oppure con l’immersione nel sale asciutto, che penetra nel loro corpo disseccandolo e provocando una lenta agonia. Le trote vengono invece congelate vive e la morte sopraggiunge solo dopo circa quindici minuti. In altri casi gli animali vengono uccisi semplicemente prosciugando l’acqua dalla vasca, mandandoli incontro ad un lento soffocamento.
L’acquacoltura è inoltre causa di sofferenza e morte per altri animali. Gli uccelli che si nutrono di pesci, come i gabbiani, sono attirati verso gli specchi d’acqua di queste “acquafattorie”, che rappresentano per loro una invitante fonte di cibo. Piuttosto che utilizzare misure incruente per mantenere gli uccelli lontano dai pesci, come ad esempio coprire le gabbie con delle reti, molti pescicoltori più semplicemente decidono di uccidere gli uccelli, gettandoli poi in estese fosse comuni. Inoltre, i rifiuti di queste “acquafattorie” vengono scaricate nei mari insieme alle sostanze chimiche utilizzate nelle vasche, provocando una pericolosa alterazione dell’ecosistema marino. Si tratta di sostanze altamente nocive per le altre forme di vita marina, come il Dichlorvos, un trattamento per eliminare i pidocchi di mare estremamente tossico e in grado di provocare l’infarto nei salmoni.
3 commenti:
la realtà degli allevamenti e degli sfruttamenti crudeli degli animali, è ben radicata, tutti dicono sono solo animali,ci sono aziende che cercano di migliorare le loro condizioni ma sono poche, e poco pubblicizzate, anche perchè è la sensibilizzazzione delle persone che manca, siamo a livelli medioevali in Italia, e mi dispiace dirlo, penso che la chiesa abbia un ruolo fondamentale anche in questo, solo da pochi anni nella chiesa sono stati introdotti discorsi " eco compatibili", prima l'importante era lo sviluppo dell'uomo a discapito di tutto il resto, papa Paolo Giovanni venuto in Sardegna era rimasto disgustato dalla troppa campagna e dal fatto che fossimo così pochi.... be per fortuna non gli hanno dato retta.. siamo sempre pochi è stiamo bene così.
Sai, le parole di Enzo Maiorca fanno davvero riflettere, a pensare ch'è un periodo in cui volevo adattarmi ai pasti a base di pesce....aiuto!
@ calendula/trattalia : l'incoerenza della chiesa è ormai arcinota ma, che addirittura il papa sia rimasto disgustato della troppa campagna è il colmo.
@ blessing: certe esperienze ti fanno cambiare il modo di pensare su alcune cose, ma a volte tutto il tuo modo di vivere.
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