Riunitisi alle prime luci dell’alba a Cassibile, in via Nazionale, luogo in cui ogni mattina i caporali, durante il periodo della raccolta delle patate, prelevano i migranti per portarli a lavorare nei campi del siracusano, gli organizzatori si sono poi spostati al campo sportivo Pippo Di Natale. Lì verso le 9 insieme a loro si sono uniti gli stranieri della comunità di Bosco Minniti e gli studenti dei licei siracusani che, stretto al braccio o al collo un nastrino giallo, colore simbolo dell’iniziativa. Insieme a suon di musica hanno attraversato le vie cittadine: Corso Gelone, Corso Umberto, fino ad arrivare a Ortigia. Uno sciopero per far fermare gli stranieri che lavorano nelle campagne siciliane e per coinvolgere i cittadini. Ma a cui hanno partecipato solo in pochi. “Siamo deluse. Ci aspettavamo molte persone che manifestassero contro le differenze” esclamano Antonella e Fabiana, studentesse. E mentre due dei migranti di Bosco Minniti leggono prima in francese e poi in inglese gli articoli della Dichiarazione dei Diritti Umani, altri extracomunitari del luogo rimangono ai bordi della strada o sui marciapiedi, limitandosi a guardare. “Abbiamo un appuntamento di lavoro. Non possiamo manifestare” spiegano due tunisini che non hanno voluto dirci i loro nomi. Anche gli abitanti della città sembrano essere disinteressati alla manifestazione. E alcuni non sanno nemmeno di cosa si tratta. Come il giornalaio Luciano che, nonostante la promozione dello sciopero sui mass media, non riesce a spiegarsi la presenza dei manifestanti:“Uno sciopero degli stranieri? Non ne sapevo nulla”. E aggiunge: “Se a scioperare sono gli stranieri regolari, è giusto. Ma quelli irregolari non possono farlo perché non possono pretendere di avere gli stessi diritti”. Ma per fortuna non tutti i siracusani la pensano così: “Ho trascorso 15 anni in Africa. E’ brava gente ed è giusto che reclamino i loro diritti. Fossi stata più giovane, mi sarei unita a loro” esclama candidamente la signora Filippa. Durante lo sciopero non sono mancati gli appelli per uno degli organizzatori assenti: “Le persone oneste, come padre Carlo, vengono perseguitate perché aiutano questi ragazzi” urla al megafono Federico del coordinamento catanese. “Liberate padre Carlo” grida un migrante di Bosco Minniti. “Appello del tutto spontaneo. La cosa più bella che c’è” sottolinea Perna. Il corteo si è poi concluso al Tempio di Apollo. Da lì i partecipanti si sono spostati nei locali dell’antico mercato per pranzare. E per intrattenersi con momenti ludici, artistici, musicali e con la proiezione di documentari sull’immigrazione.
Si tratta di don Carlo D'Antoni. Di lui le cronache nazionali si sono occupate velocemente. A Siracusa è stato un terremoto. E lo stesso nei circuiti delle associazioni che si occupano di immigrati. Lo conoscono tutti, don Carlo. La parrocchia di Bosco Minniti è l'esempio di un'accoglienza possibile: si mangia davanti l'altare maggiore, si dorme tra i banchi della chiesa. «Lui ragiona così: il Vangelo si segue alla lettera. E infatti è finito in croce come Cristo», dice una delle sue parrocchiane che tiene lo striscione «Siamo tutti colpevoli di solidarietà». Le accuse contro don Carlo sono pesanti: associazione a delinquere e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. L'inchiesta sembra non essere peregrina. A parte il prete di Bosco Minniti sono state arrestate altre nove persone, alcune delle quali accusate di riduzione in schiavitù e sfruttamento della prostituzione. Ma a don Carlo viene contestato quello che lui ha sempre fatto alla luce del sole: cioè firmare centinaia di dichiarazioni di ospitalità, un documento necessario per gli immigrati per poter sbrigare le pratiche legate al permesso di soggiorno. Attività che certo non gli ha attirato molte simpatie: da tempo don Carlo è ai ferri corti con la questura di Siracusa. Gli inquirenti ora ritengono che abbia firmato carte anche per chi non ha mai dormito a Bosco Minniti (accusa che viene respinta totalmente) e che «non poteva non sapere» che alcune di queste ragazze venivano poi sfruttate dal racket della prostituzione e che alcuni collaboratori - secondo l'accusa - prendevano dei soldi. Ma anche in questo caso, è la stessa ordinanza a chiarire che don Carlo non ha mai guadagnato nulla.
Adesso, davanti alla sua stanza sopra la parrocchia, dove è rinchiuso agli arresti domiciliari, c'è uno striscione: «Non mollare». E ieri il corteo gli ha tributato più di un applauso. «Free don Carlo» l'appello dei ragazzi africani che ieri erano alla manifestazione. Sono tutti quelli che ancora oggi dormono a Bosco Minniti, una cinquantina. L'attività di assistenza della parrocchia continua ad andare avanti solo grazie all'impegno di alcuni volontari, come Massimilano Perna. Molti degli ospiti sono i ragazzi scappati dalla «caccia al nero» di Rosarno. Aboubakar, del Gambia, è uno di loro: «Da quando due anni fa sono arrivato in Italia, solo don Carlo mi ha aiutato». Aboubakar è un rifugiato, non ha mai avuto un contratto regolare, non ha mai seguito un corso professionale, né di lingua italiana. Tutte cose che gli sarebbero dovute secondo la legge italiana. Anche lui tra qualche settimana andrà a dormire nelle campagne intorno a Cassibile, negli anni è diventato la «piazza del caporalato» della provincia.
Ed è proprio a Cassibile, alle 6 di mattina, che è iniziato il 1 marzo di Siracusa. E' stata la rete antirazzista di Catania a insistere perché si partisse da qui: «C'è davvero il rischio che sia la prossima Rosarno». Nel pezzo di strada lungo cui si snoda il paese, che viene chiamato piazza anche se della piazza non ha una forma, già ora si incontrano tutte le mattine un centinaio di ragazzi africani che aspettano di essere caricati sulle macchine dei caporali marocchini (la comunità di più lungo insediamento) per andare a raccogliere le lattughe. Diventeranno molti di più quando ad aprile comincerà la raccolta delle patate. C'è il rischio che finiscano a dormire per strada, come sta accadendo adesso per tutti quelli che aspettano la giornata di lavoro. Il Viminale ha annunciato che proprio a Cassibile verrà approntata una tenda per accogliere i braccianti. Ma tra gli attivisti c'è la preoccupazione che sarà aperta soltanto ai regolari. Per quanto tra i braccianti africani i regolari sono molti. Solo messi a lavorare senza contratto: «No, qui il documento lo devi proprio nascondere, sennò non ti prende nessuno», dice Ousman, rifugiato sudanese. Quindi niente contributi e oltretutto paga ridotta (da queste parti si guadagnano circa 40 euro al giorno) a causa della piaga del caporalato. Meccanismi che sembrano ineluttabili, ma non per la rete catanese. Tra l'altro stanno lanciando la campagna della «patata solidale»: coinvolgere i gruppi di acquisto in tutta Italia per comprare solo le patate dei produttori che mettono i braccianti in regola. E' un tentativo, ma almeno affronta il problema alla radice.
Nessuno dei ragazzi della piazza del caporalato, però, è venuto a Siracusa. Hanno tutti preferito, come è ovvio, andare a lavorare. Lavora però anche Hamet, tunisino-italiano, titolare di un negozio di kebab sul corso di Siracusa. Non sapeva niente dello sciopero «e comunque io voto Berlusconi». Non sapeva niente neanche John, nigeriano: «Sennò sarei venuto». Limiti dell'organizzazione, che non è stata semplice. «Ma oggi è solo l'inizio, dobbiamo creare altri momenti come questo», dice alla fine della manifestazione Massimiliano Perna. Ma maggiore partecipazione avrebbe potuto esserci anche tra i ragazzi italiani: «E' che qui non c'è l'abitudine a partecipare. Lo sai che a Siracusa non c'è uno spazio per vederci? - denuncia Giuliana, 15 anni - torni a casa e c'è solo Facebook. Vogliono disabituarci alla vita».
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