Ascoltate Josè Saramago intervistato da Serena Dandini

martedì 30 settembre 2008

Lettera aperta al portiere del Milan Abbiati

Caro Christian, mi permetto di rivolgermi a te con il “tu”, dal momento che abbiamo quasi la stessa età (tu sei del '77 ed io del ’79). Leggo una tua intervista rilasciata a Sport Week (supplemento della Gazzetta) in cui dichiari la tua fede negli ideali del fascismo, ultimo di una lunga serie di calciatori che condividono le tue stesse simpatie politiche. Hai poi detto che eri sicuro che la cosa avrebbe provocato scalpore ma non ti volevi tirare indietro nel manifestare il tuo pensiero e le tue opinioni. A me francamente non hanno sorpreso più di tanto le tue dichiarazioni. In effetti non vedo perché, nell’Italia di oggi e nel calcio di oggi, ragazzi ricchi oltre ogni limite del decoro sociale e ignoranti oltre il limite della umana decenza, cresciuti in un ambiente di esasperato agonismo, ottuso maschilismo, rigida gerarchizzazione delle relazioni, razzismo sfrontatamente ostentato, dovrebbero pensarla diversamente. E non mi riferisco qui all’ambiente del calcio che conta, la cui patinata vacuità in un certo senso riesce a tenere a freno, grazie al sapiente lavoro della laicizzazione mercantile, le esuberanze più compromettenti e vistose. Mi riferisco a quel mondo delle giovanili (in cui anche tu sarai cresciuto) e del dilettantismo, ai campetti di periferia, cantati da De Gregori e descritti dalle meravigliose pagine di scrittori come Osvaldo Soriano. In realtà quei campetti di una umanità gioiosa, scanzonata e solidale, sono qui da noi – oggi – solo una suggestione letteraria. Non parlo per sentito dire, avendo girato centinaia di campi e campetti della periferia romana nella mia lunga e non fortunatissima carriera di ruvido terzino destro di una squadra di infima divisione (pur se di discreta caratura a livello giovanile). Chi parla di un calcio corrotto dagli interessi economici e dal circo mediatico che ci ruota attorno – comprese le curve neofasciste con la loro arcaicizzante lotta contro il “calcio moderno”, spesso guardata con simpatia a sinistra per le sue venature anticapitaliste – forse non ha mai sentito le grida di quei padri (e tantissime madri) indiavolati ai bordi di quei campetti ad imprecare contro i figli – degli altri, ma soprattutto propri, per qualche errore di appoggio o di disimpegno – o non ha mai assistito alle devastanti risse che quasi immancabilmente si scatenano dopo decisioni controverse di arbitri-eroi che non so quale fanatismo religioso, quale irresistibile pulsione al martirio spinge fino a quelle lande desolate. Ti risparmio, caro Christian, perché ne sarai esperto, di raccontarti cosa succede – e cosa viene gridato dagli spalti e dalla panchina – quando l’arbitro ha la malaugurata idea di essere di sesso femminile. Chi pratica il calcio dilettantistico sa che nessuno sport – a parte i combattimenti clandestini dei cani, da cui però sono esclusi i padroni – è più gratuitamente violento di questo. Detto ciò, veniamo dunque al motivo della mia irritazione nel leggere la tua intervista. Non sono tanto le tue prevedibili simpatie fasciste a darmi molto fastidio; sono cresciuto in una scuola costellata di celtiche, bomberini ghiaccio, saluti romani e tutto l’armamentario della gioventù romana di ultima generazione e sono abbastanza smaliziato su queste cose. Quello che mi irrita davvero è la trita liturgia di dichiarazione sul perché sei e siete fascisti: “La capacità di assicurare l’ordine, garantendo la sicurezza dei cittadini” e baggianate di questo genere. Nella vostra ottusa, crassa, ma per nulla innocente ignoranza, riducete sempre il fascismo a una grande organizzazione nazionale per il decoro urbano, a una sorta di braccio politico della polizia municipale. Come se uno dicesse che è comunista perché le metropolitane di Mosca erano splendide o liberale perché nell’Inghilterra della signora Thatcher le cabine del telefono erano efficientissime. E poi, immancabilmente, per far vedere il vostro critico distacco da alcune, casuali, degenerazioni, prendete le distanze dalle leggi razziali e dall’alleanza con Hitler. Come se si trattasse di cose accidentali, congiunturali, che nulla avevano a che fare con lo spirito originario di un partito nato per costruire quattro palazzi all’Eur e far arrivare puntuali i treni. Come se si potesse dire: “Io ho grande ammirazione per l’Unione Filatelica Italiana, ma certo non ho condiviso quando hanno organizzato quel vergognoso raduno di collezionisti di francobolli”. Mai uno che almeno si prenda la responsabilità delle sue idee, che onori quel “menefrego” fascista dicendo quello che pensa, quello che veramente pensate. Quel che pensate – giustamente e coerentemente dal vostro punto di vista, come direbbe il nostro ministro della Difesa – lo sappiamo bene noi che leggiamo queste patetiche interviste e lo sapete bene pure voi, caro Christian. Lo sai bene anche tu, che dalle foto del settimane scattate nel tuo soggiorno di eccezionale cafonaggine (tavolo di cristallo con attorno sei sedie... tigrate!) mostri orgoglioso le tue braccia coperte di insulsi tatuaggi. Lo sapete bene, ma mai nessuno che abbia il coraggio di dire: “Ebbene sì, sono fascista, mi stanno sul cazzo i negri, mi piace il Duce, i suoi ideali maschi di forza, di giovinezza, di comando, contro gli intellettualini mezzi froci e comunisti che danno lezioni su camere a gas, campi rom e altre stronzate del genere”. Invece no; siete li tutti a negare e a dire “ma figurarsi”. Come Buffon quando disse che non sapeva che “Boia chi molla” fosse un motto fascista, come Aquilani che disse che i cimeli in casa sua erano regali di uno zio ma lui non ci capiva nulla di politica, come Di Canio che disse che il suo non era un saluto romano ma un saluto alla curva col braccio poi equivocato dai giornalisti. Manco come fascisti siete buoni.

(di Emilio Carnevali)


«Io non ho vergogna a manifestare la mia fede politica. Del fascismo condivido ideali come la Patria e i valori della religione cattolica»...«Del fascismo rifiuto le leggi razziali, l’alleanza con Hitler e l’ingresso in guerra, ma mi piace la capacità che aveva di assicurare l’ordine, garantendo la sicurezza dei cittadini».



Abbiati, dai un'occhiata a Wikipedia e ti accorgerai che gli errori commessi durante quel tristo e nefasto periodo furono di più .

La vignetta è di Vukic

lunedì 29 settembre 2008

Una vignetta di Mauro Biani, riferita al ministro Renato Brunetta, ha scatenato l'ira della destra

Una vignetta riferita al ministro Renato Brunetta, pubblicata su "Emme", supplemento satirico de l'Unità, ha scatenato l'ira della destra, in particolare del ministro Gasparri.



Sotto il titolo 'Guerre giuste', c'è l'immagine di una persona che, puntando una pistola, fa intendere che a Brunetta si potrebbe anche sparare». Il ministro dell'Innovazione, ricorda inoltre Gasparri, «ha più volte dimostrato grande sintonia con la satira istituendo addirittura un concorso per premiare la migliore vignetta a lui dedicata. E tutti dobbiamo accettare anche la più graffiante presa in giro. Io stesso ho più volte elogiato chi mi imita anche in maniera molto vistosa. Ma una pistola puntata, pur se in una vignetta, non è un bel gioco. In un paese in cui violenza e terrorismo hanno una drammatica storia e forse radici non completamente recise, si scherzi su tutto, ma non con le armi e le pistole puntate. Sono certo che il direttore dell'Unità, accortosi dell'errore, vorrà scusarsi con il ministro Brunetta».


Senti chi parla!!!

La destra e in particolare il ministro Gasparri esigono le scuse per una vignetta. Gli stessi che hanno sempre giustificato e tollerato chi sbraita tolleranza zero o a doppio zero, hanno paura di una pistola puntata, pur se in una vignetta...
Beng Beng
!



‘U lupu di mala cuscienza comu opira accussì pensa...
"Il proverbio non sbaglia mai".


Tutta la mia solidarietà a Mauro Biani.
La sua vignetta è un capolavoro satirico.
Complimenti!!!

La notizia

Il sito di Mauro Biani (visitatelo, vi renderete conto quanto è violento)

La vignetta su Bossi è di : ARTEFATTi.it

domenica 28 settembre 2008

Il "vangelo" secondo Gentilini

Gentilini

"... Voglio tolleranza a doppio zero.
Maroni dice a zero io voglio a doppio zero.
Io voglio la rivoluzione nei confronti della televisione , della radio, dei giornali perchè continuano ad infangare la Lega.
E' tempo di zittire, dobbiamo mettere i turaccioli in bocca e su per il culo..."




"Vaffanculo-Lega, razzista!"

sabato 27 settembre 2008

Lampedusa: mitra sulle navi francesi di Frontex


Mitra a bordo contro gli immigrati nel Canale di Sicilia. Almeno sui mezzi francesi. Lo denuncia l'euro-parlamentare Giusto Catania, che il 25 settembre ha presentato un'interrogazione scritta alla Commissione europea "sull'utilizzo di armi da parte di agenti Frontex durante i salvataggi in mare”. Una foto scattata al molo di Lampedusa la sera del 24 settembre e pubblicata sul sito di Catania, mostra un militare con un mitra a tracolla, puntato – secondo testimoni oculari – contro il gruppo di migranti a bordo della fregata francese Arago P675. La nave è impegnata nella missione congiunta di pattugliamento Nautilus III, coordinata dall’agenzia europea Frontex e attiva nel Canale di Sicilia, tra la Libia, Malta e l’Italia. Gli stessi migranti soccorsi dalla P675 la sera del 24 settembre, hanno raccontato ai giornalisti sul molo e agli operatori umanitari, che i militari francesi avrebbero sparato in aria al momento dell’avvicinamento in mare del vecchio peschereccio su cui viaggiavano in 212. La tensione – secondo il racconto degli immigrati – sarebbe nata in seguito a un piccolo impatto tra le due imbarcazioni per un errore di manovra. I militari avrebbero allora sparato alcuni colpi di mitra, chiedendo contemporaneamente di mantenere la calma. In seguito, i militari stessi avrebbero mantenuto i mitra puntati verso i migranti per tutto il tragitto e fino all'entrata in porto a Lampedusa, come testimoniato da giornalisti e operatori umanitari presenti al molo.

La P675 aveva soccorso la notte tra il 23 e il 24 settembre un gruppo di 65 immigrati, tra cui 13 donne, 40 miglia a sud di Lampedusa. E li aveva portati sull’isola apparentemente senza nessun problema. Ma la sera del 24, secondo testimoni oculari, a bordo della P675 vi erano almeno due ufficiali in uniforme militare armati di mitra. Alla Commissione, Catania chiede se sia al corrente dell’utilizzo di armi nelle operazioni di recupero svolte sotto l’egida di Frontex e se lo ritenga conforme al suo mandato. Domande cruciali in un momento decisivo per il futuro dell’agenzia. Da un lato c’è il direttore Laitinen che ammette il fallimento dei pattugliamenti. Dall’altra il Parlamento europeo che chiede più rispetto dei diritti umani.

L'assemblea plenaria degli eurodeputati ha infatti approvato, il 25 settembre, la risoluzione sui “Progressi nell’area di libertà, sicurezza e giustizia (Afsj) nel 2007”. Il testo chiede all’agenzia di controllo delle frontiere europee, gli euro-deputati chiedono di “includere le operazioni di salvataggio in mare” nel suo mandato, “assicurare che i controlli siano rispettosi dei diritti umani” e stabilire “una collaborazione strutturata” con l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Acnur) per salvaguardare i rifugiati che attraversano illegalmente i confini europei. Tre giorni prima, il direttore dell’agenzia di controllo delle frontiere europee (Frontex) Illka Laitinen aveva ammesso il fallimento dei pattugliamenti nel Canale di Sicilia in un’intervista al Sunday Times di Malta: "Non stanno rendendo i risultati desiderati".

Gli arrivi via mare a Lampedusa sono cresciuti del 190% durante i primi sei mesi del 2008. E anche Malta ha registrato un incremento del 32%. Al pattugliamento, finanziato con otto milioni di euro da Frontex, partecipano le forze armate di Malta, Italia, Francia, Germania e Grecia. Dall’avvio delle operazioni, nel maggio scorso, 12.641 immigrati hanno raggiunto Lampedusa e 2.300 Malta. Ufficialmente non c’è stato nessun respingimento in Libia. Ma il documentario “Guerra nel Mediterraneo”, realizzato da Roman Herzog per la radio pubblica tedesca Ard, parla di unità navali tedesche che tolgono carburante e viveri ai migranti in mare per obbligarli a invertire la rotta. Diversa la situazione in Spagna dove l’operazione di pattugliamento Hera III, coordinata da Frontex al largo delle isole Canarie, nell’oceano Atlantico, ho causato il respingimento di 4.211 migranti a fronte di un totale di 6.280 arrivi al 23 settembre 2008. I respingimenti saranno presto attivi anche tra Italia e Libia, non appena entrerà in vigore l’accordo bilaterale di pattugliamento congiunto, firmato dal governo Prodi nel dicembre 2007. Solo tre anni fa, nel maggio del 2005, una risoluzione del Parlamento europeo condannava l’Italia per le deportazioni collettive in Libia, vietate dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. La Libia non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. E le condizioni dei campi di detenzione libici per gli immigrati, sono state definite degradanti e disumane da Amnesty International e Human Rights Watch oltre che dal rapporto di Fortress Europe e dal recente documentario Come un uomo sulla terra.

( Dal blog di Gabriele Del Grande )

venerdì 26 settembre 2008

Sabato 27 settembre tutti allo Jatevenne day

Nei giorni di fuoco della protesta di Chiaiano, i cronisti di radio, giornali e tv hanno spesso descritto chi si opponeva alla discarica come una folla di egoisti o di oscuri personaggi, inventando storie di armi, droga e camorra. Lo stesso era accaduto a gennaio a Pianura, mentre allora come oggi il consiglio comunale e quello regionale si sono tenuti a distanza dalle tensioni che hanno contribuito a provocare con le loro assurde politiche sui rifiuti.

A loro e al governo Berlusconi, gli abitanti di Chiaiano, Marano e Mugnano chiedevano di non realizzare una discarica in un terreno non idoneo, già destinato a parco naturale, d’interrompere la gestione straordinaria dei rifiuti che perdura dal 1994 e che ha causato l’attuale disastro ambientale, di iniziare immediatamente la raccolta differenziata a Napoli e in Campania applicando la legislazione europea, di lasciare libera la magistratura di indagare sulle reti di illeciti intorno alla gestione dei rifiuti.
Dopo oltre cinque mesi gli uomini e le donne di Napoli nord, sono ancora aggrappati alla difesa testarda della propria terra e della propria salute. La protesta è ricominciata davanti alla rigidità del Commissariato di governo, sordo e cieco al lavoro di quegli stessi esperti che pure aveva riconosciuto. Le indagini hanno confermato che la cava è inadatta, le pareti franose, il suolo inquinato, la falda acquifera permeabile, la circolazione veicolare quasi impossibile.
Ad ogni obiezione si è contrapposto un progetto faraonico che allarga sempre più le maglie della spesa e dei finanziamenti, facendo ancora più danni, come la nuova strada a due corsie che dovrebbe violentare ulteriormente il Parco.
Se quattro mesi fa i rifiuti in strada erano la leva per cortocircuitare ogni discussione democratica, la loro parziale rimozione è usata oggi per giustificare un «decisionismo» autoritario e senza controllo. Eppure ci si è limitati a mettere i rifiuti in nuove discariche, aperte come ferite nelle campagne dell’avellinese e del casertano o allargando a dismisura la «città delle eco-balle», il mostro ecologico chiamato Taverna del Re.
Nessuno degli obiettivi per cui era nato il «piano rifiuti», principalmente la chiusura delle discariche, è stato praticato o perseguito.
Sui media, la popolazione campana appare sempre passiva o mobilitata perché prezzolata da loschi interessi. Si cita spesso la camorra. Se analizziamo il passato recente o le inchieste giudiziarie in corso, la camorra sembrerebbe più incline all’apertura che non alla chiusura delle discariche, avendo dimostrato di saper entrare nel loro funzionamento. Come per la camorra l’emergenza rifiuti è stata finora anche per politici e imprenditori un’occasione di speculazione e di violazione dei diritti sociali e ambientali.

Il decreto Berlusconi s’inserisce perfettamente in questa distorta filosofia emergenziale. E lo fa in più punti: nella costituzione di una superprocura che controlli le inchieste accettabili e quelle «inadeguate», nella possibilità di stoccare in discarica diverse tipologie di rifiuti speciali e tossici, nello stanziamento senza controllo di centinaia di milioni di euro per assegnare le infrastrutture senza gara d’appalto, nella previsione di ben quattro inceneritori per drenare i contributi statali come chiede apertamente Confindustria, nell’utilizzo dei militari, nell’imposizione di uno stato d’eccezione con norme penali ad hoc per colpire chi protesta.

Concretamente questo decreto perpetua per la Campania un futuro da discarica nazionale, sversatoio a basso costo dei rifiuti industriali e base di partenza per l’assalto al finanziamento pubblico.
Ma esistono altre vie d’uscita dall’emergenza: il riciclo, la riduzione drastica degli imballaggi, la separazione almeno del secco dall’umido, l’allestimento d’impianti per la trasformazione dei rifiuti differenziati e per la differenziazione «a valle» della raccolta, in grado di ricavare compost [utile per bonifiche e agricoltura], nuovi polimeri dalla plastica, nuovo vetro.
Perché non si può virare il piano in questa direzione? Un piano che è partito dalla chiusura delle discariche [come chiedeva la comunità europea] e vuole oggi riaprirne più di dieci in zone come le aree vulcaniche come Terzigno o la Selva di Chiaiano, unico polmone verde di Napoli, e tante altre.
Ancora una volta, si chiede ai cittadini di sacrificarsi al buio, senza nessun segnale di inversione reale di rotta, di emancipazione dalla sudditanza agli interessi forti.

E’ necessario esprimere la nostra solidarietà ai cittadini di Chiaiano; riconoscere che nella vicenda di Chiaiano si misura oggi una vicenda più grande che riguarda il modello di cittadinanza e la tutela dei beni comuni nel nostro paese e in particolare nel sud. Lo Jatevenne Day di domani non è perciò soltanto un urlo contro la militarizzazione del Parco delle Colline, è un appello contro la militarizzazione della società.

Un appello in cui Chiaiano non può essere lasciata sola. ( Fonte : CARTA )

jatevenne day spot : http://www.chiaianodiscarica.it/

Adotta un disegno : I bambini di Emergency



Shiniar che disegna uccelli sospesi in aria con le ali chiuse. Shiniar che disegna fiori scuri e bambine che volano più in alto delle farfalle. Shiniar che riempie di segni un foglio dopo l’altro. Shiniar che ride felice se le porgi matite colorate ma che poi non regala colori ai suoi fiori scuri. Shiniar che china la testa per inseguire i suoi disegni veloci e suo padre che le mette due fermagli lilla a fermare i capelli che non le intralcino lo sguardo. Shiniar ha sette anni e le guance rosse. Shiniar bambina curda. Dicono che i curdi non hanno terra. Ma la terra che ha calpestato Shiniar nascondeva una mina. Adesso Shiniar ha una protesi al posto della gamba destra. Con un piede di plastica piccolo color della carne. Come un piede di bambola. Shiniar non può correre. Dove vive le strade sono di fango. Ma Shiniar è una bambina e le bambine che disegna volano più in alto delle farfalle.

Quante volte chi denuncia la barbarie della guerra, tentando di raccontarne gli effetti su chi è costretto a subirla, si è sentito rispondere da esperti, politici e grandi editorialisti che usare l’argomento dei bambini che ne sono vittima è retorico, è demagogico e troppo facile.

E’ vero, è facile; com’è facile, troppo facile, che siano i bambini ad essere colpiti, uccisi e mutilati dai bombardamenti umanitari o meno, dai proiettili, dalle mine e dalla miseria che ogni guerra lascia ed alimenta. Ed è anche facile accorgersene, basta fare un giro in uno degli ospedali di Emergency dall’Afghanistan alla Sierra leone, dall’Iraq alla Cambogia, per incontrarli, per incontrarne troppi.

Troppi perché basta incrociare anche uno solo di quegli sguardi dove lo stupore per la ferita subita supera spesso il dolore e la paura provati e qualsiasi ciancia sulla necessità ed inevitabilità della guerra perde immediatamente qualsiasi senso. E’ vero pure che parlare di bambini è retorico e generico. E’ vero perché ogni singolo bambino è un mondo nella sua unicità.

26 settembre/12 ottobre 2008
Casa dell'Ariosto
Via L. Ariosto, 67 - 44100 Ferrara
Orari: dal martedì al sabato, ore 10,00/13,00 e 15,00/18,00
Domenica ore 10,00/13,00 - lunedì chiuso
Ingresso gratuito


Il progetto ADOTTA UN DISEGNO nasce da un'idea di Vauro Senesi che, nel 2006 e 2007, ha raccolto le storie e i disegni di alcuni bambini ricoverati nei centri di Emergency in Afganistan Cambogia, Iraq, Sierra Leone e Sudan.
Le testimonianze e i disegni sono stati di ispirazione per artisti visuali e musicisti contemporanei che li hanno reinterpretati in base alla loro sensibilità e al loro stile. Le creazioni che ne sono nate, le opere donate ispirandosi al progetto, le storie e i disegni dei bambini e i brani musicali loro dedicati sono diventate una mostra itinerante che, dopo l'inaugurazione di Roma, sarà ospitata a Genova, Torino, Milano, Firenze, Venezia, Londra, Berlino, Parigi e New York dove la mostra si concluderà con un'asta.

Durante la mostra sarà possibile ascoltare i brani musicali del cd CANZONI PER LORO e vedere alcuni estratti dal film-documentario che ne è nato, in cui le voci narranti di Vauro e Paolo Rossi raccontano le storie dei bambini protagonisti.

Le opere in mostra sono di:
Carla Accardi, Daniel Buren, Enrico Castellani, Lara Favaretto, Lucio Fontana, Shay Frisch Peri, Paul Fryer, Massimiliano Fuksas, Kendell Geers, Nan Goldin, Mona Hatoum, Fabrice Hyber, Mike Kelley, Anselm Kiefer, Fausto Melotti, Pierre et Gilles, Rudolf Stingel, Pascale Marthine Tayou, Keith Tyson, Ben Vautier, Francesco Vezzosi.

Le musiche sono di:
Jovanotti, Tetes de Bois, Morgan, Stefano Bollani, Roberto Angelini, Mauro Pagani, Carmen Consoli, Petra Magoni & Ferruccio Spinetti, Vinicio Capossela, Fiorella Mannoia, Daniele Silvestri, Radiodervish, Gianmaria Testa, Franco Battiato, Ginevra Di Marco,Eugenio Bennato, Zucchero.

Il catalogo delle opere in mostra e il film-documentario sono stati realizzati da Fandango. Il cd che raccoglie tutti brani musicali, originali o in versioni inedite, è prodotto da Radio Fandango.

ADOTTA UN DISEGNO è a cura di Sergio Casoli ed Elena Geuna per l’arte visiva e di Stefano Senardi per la parte musicale. In collaborazione con Comune di Roma, Nunflower, Fandango, Radio Fandango e Comunicare Organizzando. Con il contributo di Regione Lazio e American Express. Grazie a Ufficio Stampa Novella Mirri.

ADOTTA UN DISEGNO è dedicato a Emergency.
L'intero ricavato dell’asta delle opere e della vendita del cd "Canzoni per loro", i diritti d'autore e il 35% del prezzo di copertina del catalogo (prima edizione) saranno destinati alle attività di Emergency a favore delle vittime della guerra e della povertà.


Quì potete ammirare le opere dei bambini, conoscere le loro storie e ancora ascoltare i brani musicali del cd "CANZONI PER LORO"

mercoledì 24 settembre 2008

Qui non si serve birra ai neonazisti e a Borghezio

Sono "facinorosi camuffati da benpensanti, razzisti in abiti civili, sottili promotori di paure" i partecipanti al raduno anti-islamico di Colonia nelle parole del sindaco democristiano di Colonia, Fritz Schramma. Quanto è ormai lontano l'Italia del Pensiero Unico dall'Europa democratica? Molto, molto lontano. Prima ancora che la polizia tedesca sciogliesse la manifestazione Schramma invitava caldamente Borghezio e i suoi compari "euro-fascisti" a "tornarsene a casa", a Colonia non sarebbero benvenuti.

Un'intera città si è ribellata agli ospiti indesiderati, poche decine di neonazisti tedeschi, austriaci e neofascisti italiani.


È in mezzo a loro un eurodeputato di nome Maurizio Borghezio della maggioranza di governo.

La risposta del leghista al divieto della manifestazione?
Forse un moto di autocritica, visto che il bravo leghista si vedeva attorniato da neonazisti? Manco a pensare.
Tuona contro la "islamizzazione dell'Europa", contro la viltà delle istituzioni, che si sarebbero arrese.


A Colonia i tassisti (sic!) non hanno fatto salire sulle loro vetture gli "euro-fascisti".
Vadano a piedi!

Gli autisti dell'autobus si sono rifiutati di portarli nei quartieri "musulmani" come volevano loro, per vedere i quartieri "degradati dall'islamizzazione".

In piazza non c'erano gli islamici a protestare,
c'era l'intera città.


La nave sulla quale si doveva svolgere la conferenza stampa sul Reno, si è trasformata in una specie di prigione per i partecipanti perché il capitano li ha tenuti per cinque ore ferme in mezzo al fiume.

Tutte le birrerie di Colonia esponevano un cartello con la scritta: "Qui non si serve birra ai nazisti".


A quando le birrerie di Torino si rifiuteranno di servire una birra a Borghezio?

(di Udo Gumpel, Megachip - Pandoratv)

La Vignetta

martedì 23 settembre 2008

Castelvorturno - Dopo la strage degli immigrati: parlano le associazione locali che lavorano con gli stranieri



La leggerezza della stampa nel riportare “a caldo” la notizia della strage è alla base delle violenze scoppiate a Castelvorturno il 19 settembre, dopo il massacro di sei giovani africani. Lo denunciano le associazioni del territorio, che chiedono anche alla magistratura di indagare sugli interessi che ruotano attorno al piano di riqualificazione dell’area.


“Le proteste di venerdì pomeriggio sono state innescate dalle notizie riportate dai media. La manifestazione inizialmente era tranquilla e pacifica, ma ha cominciato a degenerare quando i telegiornali hanno parlato di droga, etichettando le vittime come spacciatori. In realtà le sei persone uccise non erano coinvolte nello spaccio di droga”.
Non ha dubbi Gianluca Castaldi (ascolta tutta l'intervista), responsabile del centro di accoglienza per gli immigrati di Caserta: i cassonetti bruciati e le auto rovesciate dopo l’assassinio di sei giovani africani a Castelvolturno sono frutto della leggerezza della stampa nel riportare “a caldo” la notizia, ma sono anche “sintomo di una problematica che è stata a lungo trascurata”.

Una scintilla che ha aperto le porte a rabbia e frustrazioni. “Da anni si parla di immigrati soltanto a livello di cronaca e questo diventa uno strumento che si presta a strumentalizzazioni politiche” prosegue Castaldi, parlando anche a nome della comunità africana. “Gli immigrati sono consapevoli di essere ormai oggetto di uno sciacallaggio politico e mediatico senza precedenti. Chiedono che i mezzi di comunicazione di massa siano più giusti. Soprattutto in questo caso, in cui i disordini sono iniziati proprio a causa di un montaggio televisivo e di un servizio giornalistico fatto male, credo opportuno che giornali e telegiornali comincino una riflessione sulle loro responsabilità morali nel diffondere notizie che riguardano categorie così vulnerabili, come quelle degli immigrati”.

Una visione, questa, condivisa anche da padre Giorgio Poletti (ascolta tutta l'intervista), comboniano della pastorale per gli immigrati di Castelvorturno, secondo cui in Italia siamo ancora dei dilettanti nel modo di rapportarci con le nuove culture. “Sta crescendo un mondo di frustrazioni, di rabbie represse, di situazioni difficili e irrisolte” dice Poletti “ed è chiaro che tutto questo emergerà sempre più, perché oggi l’integrazione nel nostro paese è una favola, un processo su cui occorre investire subito, anche economicamente, altrimenti ci troveremo a dover fare i conti con enormi esplosioni di rabbia”.

Una rabbia che in questo caso almeno, grazie anche all’intervento delle associazioni laiche e cattoliche che lavorano con gli stranieri, non ha avuto pesanti ripercussioni. Anzi. Gli africani sono tornati in strada il giorno dopo, reagendo alla sfida dei clan e alle etichette dei media con orgoglio e dignità. Hanno convocato giornalisti e telecamere per farsi vedere in faccia, per raccontarsi. Vogliono che la gente sappia, che veda come e dove vivono. Vogliono farsi ascoltare. Denunciano gli sfruttatori e chiedono allo Stato le stesse tutele garantite ai cittadini italiani. “Non siamo tutti spacciatori” dicono “la maggior parte di noi lavora duro, sfruttata nei campi o nell’edilizia per 12-14 ore al giorno per poco più di 20 euro”. “Arrestate i camorristi – dicono - non noi, che pagati male e in nero mandiamo avanti l’economia locale”.

Quei volti di donne e ragazzi segnate dal dolore e dalla stanchezza sono la vera notizia. E la loro paura resa pubblica è anche un incitamento diretto a tutti i casertani, un invito a reagire, a non chiudersi in casa. Un invito che sarà ribadito il 4 ottobre, quando a Caserta si terrà una manifestazione anti-razzista, per la quale gli organizzatori prevedono la partecipazione di 8-10mila immigrati.

Lo Stato, intanto, ha risposto alla strage camorristica del 18 settembre inviando 400 uomini delle forze dell’ordine. Una scelta discutibile per chi conosce bene il territorio: “Non crediamo che l’arrivo di polizia e carabinieri sia la soluzione” commenta padre Poletti “la soluzione sta, invece, in un lavoro più delicato di intelligence. Occorre scoprire dove sono i gangli della malavita e colpire quelli, mentre il rischio, così, è che si proceda solo ad una serie di espulsioni di stranieri irregolari”. Alcuni suggeriscono di indagare sugli interessi che stanno dietro al progetto di riqualificazione dell’intera area di Castelvolturno, un progetto che prevede, tra l’altro, un nuovo porto e un centro clinico specializzato nella cura dei tumori. “La presenza di immigrati è un ostacolo a certi interessi economici – conferma Castaldi – e quindi questo può essere un ambito nel quale forze dell’ordine e magistratura potrebbero indagare”.
( Michela Trevisan )

sabato 20 settembre 2008

Prosciolti i due Rom accusati di aver tentato di rapire una bimba davanti all’Auchan di Catania.

Quello che avrebbero dovuto scrivere i grandi giornali e che non hanno scritto:


I due giovani di origini rom,Viorica Zavache e Sebastian Neculau, accusati di aver tentato di rapire una bimba davanti all'Auchan di Catania, sono stati prosciolti


Nello scorso maggio, giornali e tv diedero per scontata la loro colpevolezza
.

Il campo nomadi catanese fu sgomberato, uno degli accusati
(Viorica Zavache) ha trascorso tutti questi mesi in carcere e... nessuno degli accusatori ha chiesto scusa o semplicemente ha dato la notizia della sentenza.

Assoluzione: questo il verdetto emesso dal giudice Antonella Romano nei confronti di Viorica Zavache e Sebastian Neculau, i due giovani rom accusati di aver tentato di rapire una bimba all’interno del parcheggio di un noto ipermercato catanese nel maggio scorso.


Per Sebastian Neculau l’assoluzione è stata completa; per Viorica Zavache – che ha atteso quest’udienza rinchiusa nel carcere di Agrigento – il Giudice ha deciso l’assoluzione per quanto riguarda i capi d’accusa di tentata sottrazione d’incapace e di tentato sequestro, ma ha rimesso gli atti alla procura affinché si proceda diversamente.

Durante l’udienza di oggi – celebrata in rito abbreviato – è stata ascoltata la testimonianza della madre della bambina, che ha ribadito la versione secondo la quale la giovane rom avrebbe tentato di portarle via la figlia, chiamando in aiuto il compagno dopo la sua resistenza. Il pm Migliorini ha chiesto dunque per entrambi gli accusati una pena di 3 anni, ma il giudice Romano ha deciso il proscioglimento. «Evidentemente non è stata ravvisata nella Zavache l’intenzione di sottrarre la bambina alla madre» ipotizza la difesa, in attesa del deposito delle motivazioni della sentenza.

Ovviamente soddisfatta della decisione l’avvocato Marilisa Gaeta, difensore dei due giovani: «Si capisce che sono capitati nel posto sbagliato al momento sbagliato», ha ribadito facendo riferimento al clima “anti-rom” che aleggiava nel mese di maggio. La vicenda infatti è accaduta a pochi giorni dagli assalti ai campi rom nel napoletano a seguito dell’altro presunto rapimento di un bambino a opera di una giovane appartenente a questa etnia. Nel giro di poche ore, a livello locale e nazionale, la notizia è stata trattata in maniera sbrigativamente colpevolista dai media, che non hanno esitato a dare per scontata l’equazione “rom-ladri di bambini”.

La conseguenza immediata e più tangibile è stata la fuga degli abitanti del campo del quartiere Zia Lisa di Catania, costretti a lasciare la città nonostante i loro figli fossero inseriti all’interno di un progetto a cura della Caritas locale che permetteva loro di frequentare la scuola.

Si attendono ora gli eventuali sviluppi giudiziari della vicenda: escluso il tentato rapimento della bimba, si dovrà vedere se la procura ipotizzerà accuse diverse per il diverbio avvenuto nel parcheggio del supermercato. Intanto, per Viorica Zavache restano quasi cinque mesi di carcere. E il ricordo di essere stata accusata da un’intera nazione di essere una ladra di bambini.

( di Carmen Valisano )

La ricostruzione.
Storia di bimbi o di monetine? (27 maggio 2008)

Chi lavora all`Auchan di Catania ha subito avuto molti dubbi sull’accusa di rapimento della bambina. `Probabilmente i due rom volevano l`euro del carrello e le cose sono degenerate`. L’area del parcheggio è videosorvegliata. Ma i filmati sono stati esaminati?

“Vediamo spesso scene di questo genere. Di solito i rom seguono i clienti fino alla macchina per chiedere l’euro del carrello. Sarà almeno un anno e mezzo che si usa così. Se poi sul carrello c’è un bambino, può capitare che siano loro stessi a tirarlo giù...”. Davanti all’Auchan di San Giuseppe La Rena, il clima di allarme e di tensione che secondo i giornali si respira da una decina di giorni non lo si sente proprio. È uno dei ragazzi che lavorano al laboratorio del supermercato a raccontarci i gesti quotidiani che accompagnano la richiesta dell’elemosina. Un’abitudine conosciuta dai dipendenti del supermercato, su cui si basa la ricostruzione che, da queste parti, sembra convincere i lavoratori. “È tutto un equivoco, c`è stato tanto scalpore per nulla. Il fatto è stato gonfiato”, risponde la maggior parte dei dipendenti e “probabilmente questa volta - aggiunge uno degli addetti al reparto alimentare - di fronte al rifiuto della signora, hanno provato lo stesso a prendere la moneta spostando la bambina”.

Impressioni, ipotesi, dubbi. Non è molto, ma forse vale la pena di pensarci su, in questa storia fatta finora di granitiche e frettolose certezze. I due rom arrestati giovedì scorso e accusati di aver tentato di rapire una bimba non erano degli sconosciuti arrivati per la prima volta davanti al supermercato: già da tempo frequentavano il parcheggio chiedendo l’elemosina. Molti dipendenti hanno confermato di conoscerli e quindi loro sapevano bene di non poter passare inosservati. Anche su questo si basa la difesa che l’avvocato Marilisa Gaeta sta ora preparando, per chiedere al Tribunale del Riesame la scarcerazione dei suoi assistiti.

L’avvocato, al telefono, è di poche parole, ma qualcuna la riserva all’allarmismo della stampa. “C’è qualcosa di anomalo in questa storia”, ci dice, quindi “è fondamentale cercare di non far pendere la bilancia né dall’una né dall’altra parte”. La difesa, ad ogni modo, non nega che nell’episodio che ha portato ai due arresti ci sia stato qualcosa di più della consueta richiesta di elemosina. La reazione dei due rom è stata eccessiva, al punto da spaventare la madre della piccola e spingerla a chiamare il 113. Su questo punto le versioni della madre e quella dell’avvocato sono ovviamente diverse, ma non sembrerebbero poi così lontane. Un punto di contrasto riguarda, invece, i toni usati dalla madre quando le è stata chiesta l’elemosina. Secondo tutti i giornali, la donna avrebbe detto «garbatamente» di non avere spiccioli. La difesa dei due rom parla invece di un diverbio piuttosto vivace, poi degenerato in qualche parola di troppo da parte dei due rom.

Almeno sul luogo in cui è avvenuto il fatto non sembrano esserci perplessità: il parcheggio esterno dell`Auchan. Non dentro il supermercato, quindi, né all’ingresso, come si è sentito dire in modo confusionario in questi giorni, ma fuori, nell’area di sosta. Gli uomini della vigilanza, però, sono avari di dettagli. “Non sappiamo molto. Sì, è successo nel parcheggio, ma la donna si è rivolta subito al 113, non a noi”, dice il responsabile della sicurezza. Cosa anche questa naturale, essendo la donna moglie di un poliziotto. “Soltanto da quando è successo il fatto abbiamo aumentato i controlli anche all’esterno”, riferisce un altro dei vigilantes. L’Auchan è però servito da un sistema di videosorveglianza, come segnalano i numerosi cartelli nell`area di sosta, anche se nessuno riesce a dirci con sicurezza se alcune zone restino scoperte. È possibile quindi che esista una registrazione dei fatti. Ma i filmati di quel giorno sono stati visionati dagli investigatori alla ricerca della prova del presunto tentativo di sequestro? Il personale della vigilanza non ci dice molto. L’avvocato Gaeta ci conferma che, nel fascicolo processuale, non si parla di filmati del circuito di videosorveglianza. Negli ambienti giudiziari non si esclude che un filmato possa esserci, ma la Procura non dà conferma della sua acquisizione.

Questi filmati potrebbero provare qualcosa? È tutto da accertare. Di certo c’è che, se questo nastro non è stato ancora acquisito, bisognerebbe fare in fretta. Il motivo, nel silenzio ufficiale della vigilanza, ce lo spiegano ancora alcuni dipendenti del reparto commerciale: “Queste registrazioni dopo quindici giorni di solito vengono distrutte”. E di giorni, dalla data del presunto tentativo di rapimento, ne sono già passati dodici. Per il momento comunque si attende l’esito dell’udienza del Tribunale per il riesame che avrà luogo la prossima settimana.

(di Claudia Campese e Salvo Catalano)

Troppa troppa fretta nel cancellare il video (30 maggio 2008)

Sul presunto tentativo di rapire una bambina a Catania, la Procura aveva cercato di acquisire le immagini della videosorveglianza. Ma la Polizia ha risposto che, nel giro di 24 ore, quelle immagini erano già state distrutte. Cambierà il capo d`accusa per i due rom?
Sono stati distrutti dopo ventiquattr’ore i filmati della videosorveglianza del supermercato Auchan relativi al parcheggio in cui due rom avrebbero tentato – secondo l’accusa – di rapire una bimba. È quanto si evince da un documento trasmesso alla Procura dal commissariato di polizia che ha svolto le indagini. “C`è una delega apposita, con la risposta del dirigente del Commissariato di San Cristoforo, in cui si dice che non è più possibile visionare le immagini né acquisire documentazione”, ci conferma direttamente il Procuratore capo Vincenzo D’Agata, che abbiamo incontrato nel suo ufficio di piazza Verga.

Come Step1 ha già raccontato, il parcheggio dell’ipermercato è dotato di telecamere per la sorveglianza. È dunque possibile che il fatto sia stato ripreso e registrato su di un nastro; una prova che forse aiuterebbe a capire meglio come sono andate le cose, a stabilire se sia più verosimile la versione della madre (“i rom volevano rapire la bambina”) o quella che circola insistentemente tra i dipendenti del supermercato (“i rom volevano la monetina del carrello, ma poi la discussione è degenerata”).
La Procura si è preoccupata di cercare questa prova? “È chiaramente un aspetto che è stato preso in considerazione immediatamente – ci conferma il dottor D’Agata – perchè si tratta di una prova oggettiva per verificare la dinamica dei fatti. La polizia ha risposto, tra l`altro allegando una nota dell`Auchan, che questo video non era più disponibile, in quanto le registrazioni vengono distrutte ogni 24 ore”.

Il procuratore D’Agata non si sbilancia. Fa osservare che, in questo tipo di registrazioni, contano molto «la qualità delle immagini e la posizione da cui sono state riprese». Spiega che dalle registrazioni potrebbero emergere elementi a carico dei due rom, perché anche chiedere l’elemosina in modo troppo brusco può essere un reato, anche piuttosto grave. Ma quale reato? «La questione è stata vissuta dalla signora con estrema drammaticità, nella sua proiezione personale ed interiore, su questo non ci sono dubbi». Ma «bisogna vedere se, in effetti, l`atto aveva quelle oggettive connotazioni per effetto delle quali è ragionevole concludere che la direzione dell`atto fosse quella del rapimento». Non è detto insomma che l’accusa di tentato sequestro sia destinata a restare in piedi. Ma secondo il dottor D’Agata bisogna vedere se ci sono stati «dei gesti minacciosi, per ottenere quello che era stato richiesto, il che sposterebbe l`ipotesi da quella del tentativo di sequestro a quella di estorsione». La difesa, come è noto, non nega che la reazione dei due rom sia stata eccessiva, ma sostiene che minacce non ce ne sono state e dunque contesterebbe sicuramente anche questa ipotesi di reato. Ma in ogni caso l’accusa di estorsione o tentata estorsione, al di là della gravità della pena prevista, sarebbe cosa sostanzialmente diversa dall’accusa di rapimento.

Fin qui, comunque, le parole del Procuratore. Affermazioni caute ma che autorizzano, almeno per logica, qualche domanda. Se la registrazione conteneva elementi a carico dei due rom, è pensabile che i poliziotti, subito intervenuti sul posto, non l’abbiano sequestrata subito per usarla come prova? Ed è pensabile che non ne abbiano reclamato l’acquisizione la stessa madre della piccola e il padre (che di mestiere fa proprio il poliziotto)? Una tale dimenticanza sembrerebbe alquanto inverosimile. Resta l’ipotesi che, nel filmato, potessero esserci elementi favorevoli alla difesa. Ma questo probabilmente non si saprà mai. Come ci spiega l’avvocatessa Marilisa Gaeta, la difesa, durante le prime fasi dell’indagine, può solo occuparsi della convalida dell’arresto. Insomma l’avvocato può raccogliere delle prove solamente in un secondo momento. Il filmato, quindi, è stato distrutto prima ancora che la difesa abbia avuto il diritto di conoscerlo.

Rimane da capire, a questo punto, se davvero le registrazioni della sicurezza di Auchan durino 24 ore (come riferito dalla polizia al Procuratore) o quindici giorni (come raccontato nei giorni scorsi a Step1 dal personale di Auchan). Sembrano due dati contraddittori, ma forse lo sono solo fino a un certo punto. Abbiamo provato ad avere notizie ufficiali dalla direzione di Auchan e dalla sorveglianza, ma senza successo. Da quanto siamo riusciti ad apprendere in via informale, però, sembra che le registrazioni vengano davvero conservate per 24 ore solo quando non documentano infrazioni o aggressioni. Qualora invece la vigilanza interna, nel controllare i nastri, trovasse elementi del genere, queste parti di video verrebbero conservate. Così non è stato. Forse perché questi elementi non sono stati trovati. E il processo, a questo punto, può basarsi solo sugli indizi.

Il Procuratore capo D’Agata, infine, ha qualcosa da dire sul modo in cui è stata trattata questa storia. “Dobbiamo evitare in Italia di lasciarci prendere dalle reazioni viscerali, poiché in questo Paese abbiamo sul piatto una giustizia che oscilla dal garantismo esasperato, che poi si traduce in un certo clima di disposizioni a favore di chi è indagato, ad un giustizialismo, che può essere anche fondato sulla semplice cultura del sospetto, senza mai trovare una via mediana nella quale si affermi con certezza e rigore l`autorità dello Stato”. Su questo punto, il capo dell’ufficio che sostiene l’accusa appare molto più prudente di quanto lo sia la stampa italiana.

( di Claudia Campese e Gianluca Nicotra )

venerdì 19 settembre 2008

La strage di San Gennaro Sette extracomunitari e un italiano freddati nel casertano


Ancora una strage.

Otto morti: sette extracomunitari e un italiano. Non è la prima non sarà l’ultima.

Nel 1990, a Pescopagano, furono ammazzate cinque persone e ferite sei. Il clan dei La Torre ridisegnava la mappa dello spaccio con le sue zone interdette. Oggi lo fanno i Casalesi. Il titoli dei giornali sono interessanti: far west nel casertano, mattanza, strage. Io la definisco casa mia.

Già, Mondragone, Castelvolturno, Baia Verde, Villaggio Coppola, tutte zone con un unico comun denominatore: la strada statale Domitiana. La strada che parte dal fiume Garigliano, confine Lazio Campania, e giunge fino a Pozzuoli è ormai territorio al di fuori di qualsiasi controllo.

Regna solo la paura, la disperazione, la violenza. Eppure la Domitiana sta lì, sotto gli occhi di tutti. Eppure non si muove nulla. E’ il Terzo Mondo che si è implementato nel Sud Italia.

I Casalesi, sempre loro. O così pare. Perché in Italia, fino a ieri, non si sapeva nulla di Casale di Principe, oggi tutto quello che accade nel casertano è colpa dei Casalesi. Forse anche il fallimento dell’Alitalia. Si continua ad andare avanti per semplificazioni e mistificazioni tipiche della stampa. Non credo che ci siano dubbi che siano stati i casalesi, il problema è: una strage per controllare che tipo di territorio? Le macerie. Questa è la realtà. Il degrado che vige nei territori della Domitiana è al di là di qualsiasi immaginazione. Qualcuno fa qualcosa? No. Ormai basta parlare di camorra quando accade qualcosa, per onore e gloria di qualcuno e basta. Una sorta di gara a chi trova il nuovo scoop, senza mai riflettere e approfondire su un quotidiano che è peggiore di qualsiasi inferno.

Esagerazioni? Non credo, gli otto morti ammazzati sono stati possibili proprio perché si sa che il territorio è al di fuori del controllo dello Stato Italiano. Semplice. Sapete quanti sono i poliziotti nel commissariato di Castelvolturno? Neanche 50, per un territorio che ha più obblighi di firma che residenti.

Già. E di chi sono politicamente questi territori? Il tandem Landolfi Cosentino ha regnato e regna da molti anni. Oltre tutte le indagini giudiziarie che li vede coinvolti, gira lo stomaco sentirli parlare di ripresa, di futuro del Sud, quando nei loro territori non si arriva a vedere il pomeriggio dalla mattina.

Ultimamente si fa un gran parlare di immigrati illegali da cacciare dall’Italia. Se si decidesse di farlo lungo la Domitiana questa operazione, ci vorrebbero per davvero migliaia di militari, forse anche di più. E’ semplice spaventare l’opinione pubblica con i rom e i clandestini nelle città italiane, basta non far sapere all’opinione pubblica che in molti comuni del Sud, sulla strada statale Domitiana i bianchi ormai sono in minoranza netta.

E così, mentre si fanno le grandi spiegazioni sistemiche della camorra, il quotidiano muore anche su quei pochi che cercano di resistere. Qualche giornale nazionale ha parlato dei colpi di arma da fuoco sui beni sequestrati a Pignataro Maggiore e minimizzati da parte delle forze dell’ordine?

No, nessuno ne parla. Se si avvelena una città è Napoli, come titolava L’espresso, per capire dopo che le discariche di Napoli sono in provincia e arrivano fino a Mondragone, cioè a 50 chilometri di distanza. Ma le semplificazioni aiutano, è tutto Napoli o Casalesi, oppure Gomorra. Invece il tumore è assai più grande.

Purtroppo non è così, gli osservatori più attenti sanno cosa sta succedendo: non sta cambiando nulla.

Il pm Roberti aveva avvertito tempo fa che ci sarebbe stata una recrudescenza stragista e il saperlo non lo ha impedito? Qualcuno deve rispondere a questa domanda! I servizi segreti mandati a Casale di principe, le squadre speciali cosa stanno facendo se si spara come se non più di prima? Risolveremo il problema camorra, già tanto tutto rimarrà come prima e le chiacchiere si sprecheranno anche oggi e domani.

Perché arrestare Schiavone o Bidognetti non risolve la crisi sociale lungo la strada statale Domitiana, non risolve la carenza di economia, non risolve il degrado assoluto del Sud.
Ma questo non lo dice nessuno. ( di Sergio Nazzaro )

giovedì 18 settembre 2008

Esce in tutta Italia Venerdì 19 Settembre “Pa Ra Da”, il primo film di Marco Pontecorvo

Pa Ra Da”, il primo film di Marco Pontecorvo (figlio di Gillo) presentato all’ultimo Festival del Cinema di Venezia, racconta la vera storia del clown di strada Miloud Oukili, il suo arrivo in Romania nel ’92, tre anni dopo la fine della dittatura di Ceausescu, e il suo incontro con i bambini dei tombini, i cosiddetti “boskettari”.



PA-RA-DA è la storia dell’amicizia tra una banda di ragazzini tra i tre e i sedici anni e il giovane clown franco algerino Miloud, poco più che ventenne. I bambini vivono da straccioni, come randagi, dormono nel sottosuolo di Bucarest, nelle grandi condotte dove passano i tubi per il riscaldamento e sopravvivono con furtarelli, accattonaggio e prostituzione. Sono bambini fuggiti dagli orfanotrofi o dalla povertà di famiglie indifferenti o disperate, bambini che vivono ammassati nel sottosuolo, nella rete dei canali, su cartoni e materassi putridi, in ambienti sporchi e soffocantiMiloud coltiva il folle sogno di entrare in contatto con questi ragazzi diffidenti e induriti dalla loro drammatica esperienza di scontri, violenze, lutti, pedofilia e droga. Usa il suo carisma e la sua testardaggine per penetrare il muro di sospetto con cui si difendono e per tirarli fuori dalla loro condizione e portarli a una vita dignitosa. Insegnando le attività circensi e clownesche e riportandoli alla luce del sole, dà loro la speranza in un’esistenza futura.

Dopo molte disavventure e vere e proprie tragedie, osteggiato da funzionari corrotti, Miloud riuscirà a creare una vera e propria compagnia circense con questi ragazzi di strada e riuscirà a portare in scena lo spettacolo nella piazza principale di Bucarest, dimostrando che era possibile ridare dignità umana ad esseri che tutti consideravano animali.

• Miloud Oukili. Miloud Oukili nasce ad Algeri (Algeria) il 3 gennaio 1972 da padre algerino e madre francese. Ancora piccolissimo si trasferisce con la famiglia in Francia, dove frequenta la scuola di circo di Annie Fratellini.
L’incontro con i ragazzi di strada di Bucarest avviene nel 1992 quando Miloud è in Romania dove ha scelto di fare il servizio civile con Handicap International.
La strada evidenzia una radicalità di vita molto forte. Sulla strada si incontra tutta la pesantezza di modalità di vita dure, spartane, al limite della sopravvivenza, ma anche la fantasia del sempre nuovo, la curiosità su tutto ciò che transita, sia che si fermi per un rapporto strumentale o più profondo, oppure che trans iti e basta. L’incontro, nato dall’energia di un Clown, è diventato una sorta di provocazione continua, reciproca, dialettica e forte. E’ stata anche l’accoglienza di un’invocazione di aiuto e la promessa di risposte adeguate. E’ stato infine l’incontro evocativo di sentimenti umani che vanno al di là della sofferenza, del lamento, della lotta sociale per diventare purezza di espressione, evocazione di un mondo migliore.
Mostrare se stessi nella propria autenticità vuol dire offrire umanità, cultura, poesia.
Ed è con questi strumenti che Miloud dona ai giovani che vivono per le strade di Bucarest quelle opportunità che dovrebbe essere garantite a tutti i bambini del mondo.
Forte di questo principio e realmente convinto dell’interesse e dell’urgenza di creare un contatto con i ragazzi di strad a, Miloud lavora dapprima sei mesi come volontario con Terre des Hommes e, una volta concluso il progetto, continua faticosamente da solo. L’associazione francese “Rue, Enfants, Ville” lo finanzia e gli permette di realizzare un primo programma a Bucarest. Attraverso la vita vissuta in comune per le strade e a stretto contatto con i bambini/ragazzi, Miloud trasmette la sua tecnica e il suo linguaggio e insegna a sorridere e a riconquistare la vita col sorriso. Un anno più tardi, insieme a un gruppo di ragazzi che ha deciso di accettare la sfida, viene montato il primo spettacolo.
Nell’agosto del 1994 i ragazzi partecipano al Festival d’arte medioevale di Sighisoara. L’esibizione riscuote un reale successo, in particolare da parte degli operatori dei servizi sociali e culturali. Tutti concordano sull’importanza di sviluppare l’esperienza. La riuscita dell’impresa, gli applausi, l’orgoglio di un duro lavoro, trasmettono ai giovani il desiderio di cambiare vita e di abbandonare la vita di strada.
Per garantire continuità all’impresa, nel dicembre 1996 Miloud crea “Fundatia PARADA”, una struttura locale, indip endente dove sviluppare attività artistiche intorno al concetto di reintegrazione.
Attraverso Fondazione Parada, Miloud offre loro incontri sulla strada, ascolto in un Centro diurno, accoglienza in luoghi protetti e proposte progettuali finalizzate a costruire un futuro migliore.

Ora, al fianco di Miloud e di Fondazione Parada, c’è Parada Italia in consorzio col G.R.T. Gruppo per le Relazioni Transculturali che attraverso la campagna Un naso rosso contro l’indifferenza offre a Bucarest supporto organizzativo, progettuale, economico e formativo.
Miloud per diffondere il progetto in atto a Bucarest partecipa a convegni e insieme ai giovani di Fondazione Parada tiene spettacoli in vari Paesi europei come Romania, Ungheria, Germania, Belgio, Portogallo, Francia e in particolare in Italia.
In Italia gli spettacoli di Miloud con i ragazzi di Bucarest sono strutturati in tournée che hanno una valenza di scambio relazionale che fortifica i giovani attraverso l’acquisizione di modelli diversi rispetto al loro vissuto; inoltre sono ambasciatori, non solo del loro progetto ma sono anche la voce di tutti quei bambini e ragazzi ai quali i diritti sono negati.

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L’associazione che a fianco di Miloud lavora con i giovani soli sulle strade
Quasi dodici anni fa, il 16 dicembre 1996, il clown franco-algerino Miloud Oukili creò Fondazione Parada a Bucarest, e da nove anni i Ragazzi di Bucarest vengono in tournée in Italia, all’interno della campagna “Un naso rosso contro l’indifferenza”, per incontrare giovani e famiglie delle nostre città. Nel gennaio 2006 è nata Parada Italia.
Miloud e i ragazzi hanno proposto un approccio con i gruppi e i giovani in situazioni difficili fondato sulla ricerca delle similitudini. I ragazzi di Bucarest di Parada sono ragazzi del mondo, uguali ai loro coetanei di qualsiasi altro Paese, con le stesse speranze e le stesse aspettative.
Parada Italia continua questo cammino. L’obiettivo è di fare un altro pezzo di strada tutti assieme. Ci piacerebbe incontrare i ragazzi di altri Paesi, conoscerne le difficoltà e condividerne le sofferenze. Molti giovani sono venuti nelle nostre città, spesso da soli, ci piacerebbe che anche loro fossero nostri compagni di strada.
Miloud ci ha donato la chiave per avvicinare questi giovani: “il circo” che si è rivelato uno strumento importante per ridare fiducia e autostima a tanti giovani in strada.
Il circo è anche una proposta culturale, permette, infatti, di vedere gli altri, anche i più emarginati, i poveri del Sud del mondo, non più nella loro sofferenza ma attraverso un “prisma”, quello della gioia e dell’emozione. Ma c’è di più, la clownerie rende possibile una sorta di inversione di ruoli, i ragazzi, in modo giocoso e leggero, ci permettono di entrare nella profondità del loro mondo. Ecco che, per una volta, gli altri siamo noi.
Parada Italia vuole essere un collettore delle volontà e del desiderio di assumersi responsabilità con gioia, a mobilitare intorno a un disegno progettuale chiaro e sostenibile le comunità dove siano garantiti, a tutti i bambini e giovani, adeguate condizioni di vita, rispetto dei diritti e uguali opportunità.
Parada Italia è un’associazione composta da tanti soci, non solo perché essere tanti vuol dire essere più ascoltati nei nostri piccoli paesi, nelle nostre città, ma anche dalla grande politica.
Tutti possono dare il loro utilissimo contributo: lo sguardo dell’artista che vede oltre i sintomi e la sofferenza per cogliere la insopprimibile voglia di vivere, l’ascolto psicologico che da coraggio e aiuta a fare chiarezza nei propri desideri, l’accompagnamento educativo nei primi passi riabilitativi,l’amicizia paritaria di un volontario, l’aiuto per l’autonomia economica con l’offerta di un lavoro da parti di imprenditori e mediatori al lavoro, e poi… avvocati, giornalisti, medici, comunicatori… (FONTE)

Beh, andate a vedere il film.
Esce in tutta Italia
Venerdì 19 Settembre

mercoledì 17 settembre 2008

Amnesty International si oppone all'esecuzione di Troy Davis

Troy Anthony Davis è stato condannato a morte nel 1991 per l'uccisione dell'agente di polizia Mark Allen MacPhail in un Burger King di Savannah, nello Stato della Georgia: un omicidio che Davis continua a negare di aver commesso.

Contro di lui non sono mai state presentate prove concrete e l'arma del delitto non è mai stata ritrovata.

Il processo si è basato interamente su deposizioni fatte a seguito di pressioni della polizia, le quali presentavano notevoli incongruenze e che in seguito sono state ritrattate da molti dei testimoni.
Davis si è visto inoltre negare ripetutamente la possibilità di presentare nuove testimonianze che avrebbero potuto scagionarlo dall'accusa di omicidio.

Davis era già stato a un passo dall'esecuzione nel 2007. Il 16 luglio 2007, neanche 24 ore prima, la Commissione per la clemenza l'aveva bloccata e rimandata di 90 giorni, rinvio poi prolungato dalla Corte suprema della Georgia che aveva deciso di riesaminare il suo caso. L'esame è terminato il 17 marzo di quest'anno, quando la Corte ha negato un nuovo processo a Davis.

Il 12 settembre 2008, la Commissione per la clemenza ha respinto la richiesta di commutazione della condanna a morte di Troy Davis, la cui data d'esecuzione è fissata per il 23 settembre.

La Commissione si è riunita con l'avvocato e i familiari di Davis, con la famiglia di Mark MacPhail e i pubblici ministeri di Davis. Al termine dell'incontro i membri della commissione non hanno fornito alcuna spiegazione riguardo il procedimento che li ha portati a decidere di negare la clemenza. L'avvocato di Davis ha dichiarato di voler presentare alla Corte suprema degli Stati Uniti una mozione per la sospensione dell'esecuzione.
Amnesty International si oppone incondizionatamente alla pena di morte, ritenendola una punizione crudele, inumana e degradante ormai superata, abolita de jure (per legge) o de facto (per prassi), da più della metà dei paesi nel mondo. La pena di morte viola il diritto alla vita, è irrevocabile e può essere inflitta a innocenti.

Costituisce una violazione dei diritti umani fondamentali, non offre alcun contributo costruttivo alla lotta contro il crimine violento ed è priva di effetto deterrente. Il suo uso sproporzionato contro i poveri e gli emarginati costituisce un grave atto di discriminazione, così come il suo uso quale minaccia o repressione nei confronti di oppositori politici.

Amnesty International si oppone all'esecuzione di Troy Davis a prescindere dalla sua innocenza o colpevolezza così come per qualunque altro caso di pena di morte.

Firma contro l'esecuzione

martedì 16 settembre 2008

Contro i nomadi emergenza razzismo

Questa mattina si è svolta a Verona la seconda udienza del processo per “direttissima” contro Angelo e Sonia Campo e Denise Rossetto, a cui vengono contestati i reati di resistenza a pubblico ufficiale e tentata rapina della pistola di un milite.
Ancora una volta il processo è stato rimandato.
Sembra incredibile, ma è vero. Denise Rossetto, Angelo e Sonia Campo rimangono in carcere per altri dieci giorni in attesa di giudizio. Sono in carcere dal 5 settembre scorso. La strategia del Pubblico ministero è quella di costringere i Campos e Rossetto a chiedere il patteggiamento. Unico modo per uscire subito dal carcere di Verona, dove sono rinchiusi.
Sembra che anche i legali dei Campos e di Rossetto stiano consigliando i loro assistiti a questa “soluzione".

Questa mattina La Repubblica rilancia la notizia come spalla al dibattito che è scaturito in Italia, dopo l’omicidio di Milano. Nell’articolo si afferma che l’Arma dei carabinieri nega ogni abuso. I Carabinieri di Bussolengo dichiarano: «Ci hanno insultati e aggrediti, una donna ha cercato addirittura di sfilare la pistola dalla fondina a un maresciallo, noi ci siamo limitati a difenderci e a immobilizzarli».
Sembra strano che i militi non abbiano denunciato nessuna lesione e le fotografie, scattate da Sergio di Nevo Gipen, mostrano chiaramente che le botte ricevute anche da chi non è stato denunciato sono state a dir poco esagerate. Il consigliere regionale Patenò, dopo la sua visita in carcere, ha affermato: «Era trascorsa una settimana ma Campos e Rossetto avevano ancora sul corpo i segni delle brutalità subite». «Quanto alla signora – prosegue Patenò – le compagne di cella affermano che all’arrivo era completamente coperta di lividi».
La Repubblica scrive anche che sulla vicenda sta indagando la Procura della Repubblica. Questa è una buona notizia. Speriamo che venga confermata nei fatti con un indagine accurata e un atteggiamento pari a quello tenuto con Denis Rossetto, Angelo e Sonia Campos.


“Siamo estremamente preoccupati per quanto accaduto a Bussolengo, dove 6 rom sono stati torturati dai carabinieri”. Lo ha detto Eva Rizzin, rappresentante della Federazione Rom e Sinti Insieme in Italia, commentando a margine del vertice europeo sull'inclusione dei Rom e dei Sinti a Bruxelles il presunto caso di violenze perpetrate lo scorso 5 settembre in provincia di Verona. “Vogliamo sia fatta luce su questo feroce pestaggio, su questo episodio di violenza che è come una Bolzaneto 2”, ha proseguito la Rizzin. Poi, riferendosi al vertice di oggi, ha aggiunto: “Possiamo fare molte conferenze, ma intanto il sentimento anti-rom aumenta. Si parla molto di direttive, noi vogliamo che sia rispettata quella contro la discriminazione”. La rappresentante della federazione ha infine espresso le sue perplessità circa “i risultati di questo incontro. La Ue - ha concluso - pone degli strumenti anche finanziari, ma poi dipende dalla volontà dei singoli governi utilizzarli. Anche in passato la Commissione ha messo a disposizione dei fondi, alcuni Stati membri ne hanno fatto uso, ma l'Italia no”. ( Fonte : )


E come ha reagito la comunità ecclesiale?

Viaggio in quella fetta di mondo cattolico che vive a fianco dei rom, offrendo loro solidarietà, diritti e assistenza pastorale.

Il Terzo Reich li accusò di «wandertrieb», istinto al nomadismo. Un morbo incurabile, secondo i nazisti, dal quale tutti gli zingari sarebbero stati affetti. Un pregiudizio che costò la vita ad almeno 600 mila nomadi. Nella sola Auschwitz ne furono sterminati 23 mila, senza contare le esecuzioni sommarie da parte delle SS avvenute fuori dai campi di concentramento. Furono rastrellati ovunque e internati nei lager dopo che, il 16 dicembre 1942, Himmler, comandante supremo delle SS, aveva firmato il "decreto Auschwitz" con il quale si avviava «la soluzione finale del problema zingari». Ancora oggi, però, quando si parla di Olocausto, in tanti faticano a ricordare quello sterminio. Senza contare che solo nel 1980 il governo tedesco ha riconosciuto che gli zingari, sotto il regime nazista, avevano subito «una persecuzione razziale».

«Uno dei motivi di questa scarsa memoria», precisa monsignor Agostino Marchetto, presidente del Pontificio consiglio per i migranti e gli itineranti, «è che i nomadi non hanno uno Stato alle spalle che salvaguardi la loro identità e i loro diritti. È dunque facile che siano presi di mira e discriminati, così come è facile non riuscire a tramandare la storia che si è vissuta».

C’è chi ricorda ancora, però. Da una parte e dall’altra. Per aver vissuto quei giorni, per aver visto come si possano cavalcare gli stereotipi contando sul silenzio della gente perbene se non sull’aperta complicità. «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari», scriveva Bertold Brecht, «e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non era rimasto nessuno a protestare». Una poesia, questa, che da settimane sta facendo il giro delle caselle e-mail e della carta stampata. Insieme con discussioni, dibattiti, raccolta di firme, commenti sdegnati. Perché, quando il Governo ha lanciato il suo pacchetto sicurezza, con la schedatura dei nomadi e l’idea di prendere loro le impronte digitali, quando sono state chieste leggi apposite sui nomadi che cozzano contro le normative comunitarie, a tanti è tornata la memoria. E, mentre si continua a premere sull’emergenza sicurezza, chi lavora sul campo cerca di far capire, anche se con fatica, che la vera emergenza è la tutela di queste popolazioni.

«Si avverte l’insicurezza per la propria vita, per la propria famiglia», spiega padre Agostino Rota Martir, che da anni vive nel campo nomadi di Coltano, vicino Pisa. «Il clima di questi tempi», aggiunge, «porta le famiglie rom a chiedersi cosa riserverà loro il prossimo futuro, quali saranno gli spazi ancora aperti, o appena socchiusi, che permettano di trovare una nuova autonomia, una loro "resistenza" di fronte a una società che sta diventando sempre più aggressiva nei loro confronti. I rom sono ormai abituati da tempo a questa intolleranza, ma oggi i toni sono decisamente più preoccupanti e allarmanti rispetto soltanto a qualche mese fa. La paura è anche rafforzata dal fatto di sentirsi ancora più soli, nel constatare che oggi sono ancora poche le voci che parlano veramente zingaro, e che spesso quelli che cercano di difendere i rom, usano il linguaggio e le tattiche tipiche dei "gagjo" (coloro che non sono rom o sinti). Purtroppo anche quelle realtà sensibili e attente – mi riferisco al mondo del volontariato e delle associazioni – spesso si dimostrano lontane da un atteggiamento realmente rispettoso quando avvicinano il mondo e lo spazio dei rom. Lo vedono esclusivamente come una realtà da "sanare" secondo i nostri schemi e finiscono con il sostituirsi a loro, con il decidere quale debba essere il bene per i rom e per i loro figli».

Circa 160 mila in tutta Italia, i nomadi sono un mondo di mondi. I primi, di origine rom, arrivarono nella nostra penisola alla fine del XIV secolo, dopo la battaglia del Kosovo che segnò l’inizio della dominazione musulmana nei Balcani. Un altro gruppo, i sinti, arrivarono via terra nella seconda metà del 1400. Un terzo gruppo, quello dei rom harvati, giunse in Italia dopo le due guerre mondiali. E poi, ancora, dopo le persecuzioni di Tito e la guerra bosniaca, sono arrivati i khorakhanè, i dasikhanè, i kanjarja, i rudari, i busniarija, i mrznarija. «Adesso c’è un’ulteriore migrazione dall’Europa dell’Est», aggiunge don Federico Schiavon, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale di rom e sinti di Migrantes, «e si tende a identificare tutta la popolazione con gli ultimi arrivati. Non solo: il fatto che tra gli ultimi immigrati ci sia stato qualche episodio di delinquenza, ha ingenerato reazioni negative anche verso coloro che sono qui da tempo. Non si è fatta alcuna distinzione e si è proceduto a sgombrare i campi. Ma una delle cose più tragiche è stata che, quando hanno buttato giù i campi, hanno fatto crollare anche tanti cammini che persone, maestre, volontari, sacerdoti avevano percorso con queste persone. Sull’onda di paure create ad arte da parte di chi aveva interesse a fomentare tale situazione si sono interrotti i processi anche faticosi messi in moto da tante persone. E sono state troppo poche le voci che si sono levate a difesa della dignità di questa gente».

Nel commentare il dispiegamento, voluto dal Governo italiano, di 3 mila militari con funzioni di ordine pubblico, l’Economist di qualche settimana fa scriveva: «In mezzo al melodramma, inclusa "l’emergenza" sull’arrivo degli immigrati nei barconi dal Nord Africa e lo "sfratto" degli zingari, c’è una domanda fastidiosa: perché il governo è così duro con il crimine e indulgente con la corruzione?». Viene il dubbio, insomma, che tutto questo agitare l’opinione pubblica sia funzionale a nascondere i veri problemi del Paese. D’altra parte, contro i nomadi tutti sono pronti a puntare il dito. A invocare leggi severe. Qualcuno, anche in buona fede, insiste per avere norme «a tutela dei minori che elemosinano ai semafori». Voci che non si sono alzate, però, quando, nel settembre del 1993, Tarzan Sulic e Mira Djuric, di 11 e 13 anni, furono fermati dai carabinieri perché sospettati di un furto in un’abitazione. Tarzan lasciò la caserma dopo poche ore, ucciso da un colpo d’arma da fuoco e Mira fu ridotta in fin di vita. Non sono mai state individuate le responsabilità. Due anni più tardi, il 15 marzo del 1995, a Pisa, qualcuno depositò al semaforo un pacco dono ben confezionato. Quando Emran, tre anni, e Sengul, 13, si avvicinarono per aprirlo, l’esplosione lacerò occhi e braccia dei due bimbi. E ancora, a Roma, a Sahira, nove anni, furono spezzati i polsi da un giustiziere sconosciuto perché sorpresa a tentare un furto su un autobus. Ogni giorno piccoli e grandi abusi, spesso non denunciati, ai danni di questo popolo e dei loro figli si consumano nel silenzio della gente che invoca per sé sicurezza e garanzie. «Troppo spesso», spiega Cristina Simonelli, docente di Patrologia nelle Facoltà teologiche di Verona e di Milano, e da tanti anni ospite di un campo alla periferia di Verona, «di fronte ai rom perdiamo la testa. Qualsiasi cosa riguardi uno o una di loro, diventa di tutti loro. Si nega la norma che afferma che la responsabilità penale è sempre individuale. Davanti a loro non funziona: la responsabilità diventa etnica, non esistono più uomini e donne, con nomi propri, ma un gruppo caricato di tutti i fantasmi negativi che abitano il nostro profondo e rendono inquieti i nostri sonni. E, a turno, condividono questo pregiudizio con altri gruppi, sempre collettivamente intesi: ora rumeni, ora albanesi, ora marocchini, ora, globalmente, clandestini. A turno, però: perché i rom fanno sempre parte del pacchetto».

È con questo pregiudizio che spesso ci si avvicina a loro. I nomadi sono quelli che «rubano i bambini», anche se una ricerca commissionata da Migrantes e in corso di pubblicazione ha assodato che negli ultimi 20 anni in soli due casi si è accertato un «presunto tentativo di rapimento»; sono quelli che «rubano per strada e nelle case», anche se un’altra inchiesta ha messo in luce che la percentuale di delinquenza non è superiore a quella di altre etnie e degli stessi italiani; sono quelli che «non vogliono vivere nelle case e nella decenza», ma poi quando costruiscono delle abitazioni "vere", come è avvenuto alla periferia di Milano, si invoca l’abbattimento e non il condono; sono quelli che «sfruttano i figli per l’accattonaggio», mentre è vero esattamente il contrario e cioè che i bimbi sono considerati dei piccoli principi ai quali spetta il posto privilegiato, che è quello accanto alla madre.

«Il punto vero», insiste don Schiavon, che vive da tempo in un campo vicino Udine, «è che non si riesce a guardare il mondo dalla loro parte, a capire il loro punto di vista. Quando ci mettiamo in relazione con i nomadi, proponiamo delle cose che sono buone per noi. È un popolo che ha sempre vissuto nella libertà degli spazi, senza voler disturbare gli altri. C’è anche chi, nel corso della vita, ha preferito abitare in una casa, ma è una loro scelta. Di solito, invece, noi entriamo in relazione con loro a partire dalle nostre idee e imponiamo il nostro stile di vita senza vedere le cose belle che ci sono nel loro modo di vivere. Io paragono la vita nei campi rom, con queste belle famiglie allargate, a quella che era una volta la vita delle nostre famiglie patriarcali dove c’erano dei valori, delle cose interessanti che noi un po’ alla volta stiamo perdendo».

La Chiesa è coinvolta in prima persona, «anche perché», ricorda Cristina Simonelli, «i nomadi non sono destinatari delle nostre azioni, ma sono un pezzo di Chiesa. La maggior parte di loro sono cattolici e se la Chiesa se ne disinteressasse, abbandonerebbe una parte del popolo di Dio. Una parte che ci insegna a capovolgere la storia e a guardarla con altri occhi».

D’altra parte, aggiunge Giovanni Franco Valenti, per anni direttore dell’Ufficio stranieri del Comune di Brescia, «la maggioranza di queste persone è italiana. Non si tratta di ladri e delinquenti, ma di cittadini. Senza contare che, se esiste una fetta di devianza, questa la si può arginare dando dignità al popolo, non togliendola».

Prima città italiana a sperimentare politiche inclusive, Brescia ha cercato di salvaguardare la cultura dei suoi cittadini rom e sinti e poi anche dei nuovi arrivati dall’Europa dell’Est. «L’amministrazione», spiega Valenti, «ha costruito delle strutture che potessero rendere attuabile lo stile di vita tradizionale dei diversi popoli. Così abbiamo ristrutturato tutti i campi nomadi storici, creando spazi comuni per giocare, e fornendo gli attacchi di luce, gas e acqua in sicurezza. Abbiamo rifatto le tettoie, abbiamo creato aule e luoghi di ritrovo. Nel 1997 e nel 1998, con i fondi regionali siamo riusciti a costruire un campo sinti con aiuole attrezzate, l’attacco delle lavatrici, le docce, un’area verde attrezzata per il parcheggio delle roulotte. Per i rom bresciani abbiamo messo a punto un villaggio con casette di legno pesante. I rom khorakhanè abitano in 29 casette prefabbricate costruite su 3 lotti, con luce, acqua e gas. E poi molti hanno invece chiesto di abitare in case popolari. Abbiamo cercato di creare strutture che rispettassero la loro modalità di vivere e i loro desideri. Un lavoro pensato insieme con loro e contro il quale si è sempre fortemente scagliata la Lega. Eppure, proprio in virtù di questo lavoro inclusivo, il rapporto tra i nomadi e gli altri cittadini non ha mai creato problemi. Non ci sono baraccopoli, i ragazzini sono perfettamente inseriti a scuola, la delinquenza è scarsa. Brescia è stata finora l’unica città che ha voluto superare i campi nomadi con un impegno da parte dell’amministrazione e un coinvolgimento delle popolazioni. Le strutture sono dotate di tutti i servizi, compreso il bus per portare i bambini a scuola, ma l’investimento dell’amministrazione è stato sostenuto e incrementato da una responsabilizzazione dei nomadi, che pagano affitti e bollette». Un po’ quello che vorrebbe fare il sindaco di Venezia Massimo Cacciari, se l’opposizione leghista non premesse per uno sgombero forzato di tutti i "diversi".

Sgombero o integrazione? Don Schiavon, come gran parte di chi opera con i nomadi, alla parola integrazione ha un sussulto: «Io credo che, più che di integrazione, bisognerebbe parlare di "innesto", nel senso che noi normalmente crediamo che loro debbano integrarsi nel nostro modo di vivere, mentre invece ci sono aspetti della loro cultura che sono interessanti per noi e per la nostra vita. Integrandoli faremmo uno sbaglio. Il termine "innesto", invece, ha un significato più ricco: dall’unione di io più lui nasce qualcosa di nuovo. Noi che viviamo qui nei campi scopriamo dei valori che servono anche per la nostra cultura».

Di "innesto" parla anche padre Rota Martir: «Sì, meglio questa parola piuttosto che "integrazione". L’innesto, infatti, avviene tra realtà diverse, dove i soggetti interagiscono insieme equilibrandosi, armonizzandosi, crescendo insieme e scambiandosi le proprie linfe vitali. Il risultato finale è difficilmente programmabile, è come uno spazio aperto che darà i suoi frutti imprevedibili e sempre nuovi, forse anche diversi da quelli che avremmo desiderato e sperato».


La cosa più triste, aggiunge la professoressa Simonelli, «è l’atteggiamento dei credenti. Otto anni fa Giovanni Paolo II pronunciò questa preghiera: "Preghiamo perché nella contemplazione di Gesù, nostro Signore e nostra Pace, i cristiani sappiano pentirsi delle parole e dei comportamenti che a volte sono stati loro suggeriti dall’orgoglio, dall’odio, dall’inimicizia verso gli aderenti ad altre religioni e verso gruppi sociali più deboli, come quelli degli immigrati e degli zingari". Una tale richiesta di perdono non l’abbiamo sentita in questi giorni, così come in tanti stentano a ricordarsi le parole del Vangelo "ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato...". Dovremmo interrogarci sul perché delle nostre paure e sul come lasciamo che gli altri si avvicinino a noi».

Vivere insieme, come la Chiesa fa con le cosiddette "comunità-ponte", è uno dei modi per conoscersi e camminare insieme. Per "contaminarsi", come fra l’altro suggerisce la loro splendida musica: i violini zigani, le danze struggenti, la melodia che passa dal riso al pianto, dal dramma alla festa. È un popolo carico di storia, di nostalgia e dolore, ma anche di capacità di fare spettacolo e divertire. È il popolo del circo e delle feste, delle danze attorno al fuoco. Ancora oggi, se siete zingari, entrate gratis agli spettacoli circensi. Un posto c’è anche per gli amici. «Essere amico di uno zingaro è un lasciapassare», racconta la professoressa Simonelli, «e c’è chi dice che spera che sia così anche in Paradiso: ci faranno passare se saremo stati loro amici».

(di Annachiara Valle, da Jesus, settembre 2008 pubblicato su MicroMega)